Per quanto è possibile sapere, il lupo che abitava le foreste dell’antica Roma o della Grecia classica, era simile a quello che noi oggi conosciamo; era considerato né più né meno che un cagnaccio che insidiava gli armenti e, l’aggressione all’uomo, era ritenuta un evento eccezionale, un omen, un presagio, come lo definisce Ortalli (Ortalli 1997). Nell’alto medioevo, invece, si passa dal timore per il lupo, per i danni che poteva provocare, al terrore del lupo; si affaccia, alla ribalta della storia, il lupo antropofago, il lupo mangiatore di uomini.
Ma cos’è accaduto se il lupo era sempre lo stesso animale? Quello che si era modificato, con molta probabilità, era il rapporto tra uomo e lupo.
Quali le cause di questo cambiamento? Un ruolo decisivo devono averlo giocato le trasformazioni ambientali avvenute nel passaggio tra antichità e alto medioevo. Al tempo delle guerre greco-gotiche che flagellarono la penisola per una ventina d’anni, dal 535 al 553, la dissoluzione dell’impero romano aveva portato al decadimento delle pratiche agricole e quindi all’abbandono del territorio. Ciò comportò un processo di inselvatichimento del paesaggio naturale, caratterizzato dalla cosiddetta “reazione selvosa” con conseguente diffusione degli ambienti boschivi e dell’incolto al posto dei terreni un tempo coltivati . Questo sconvolgimento ambientale implicò una trasformazione dell’economia agricola, con un deciso incremento dell’attività di allevamento soprattutto brado, cui si affiancarono la caccia e la raccolta dei prodotti spontanei del bosco: in pratica una regressione, un ritorno all’antico delle pratiche agricole. La presenza di tanto bestiame al pascolo favorì il lupo perché gli mise a disposizione prede facili da catturare, verso le quali veniva spinto dalla diminuzione delle sue prede naturali a seguito dell’aumentata attività venatoria da parte dell’uomo.
Diventò così inevitabile lo scontro tra due divoratori di carne: il lupo e l’uomo. Un conflitto che lasciò sul campo morti e feriti dall’una e dall’altra parte. Va inoltre considerato che, a parte i cambiamenti ambientali che resero il lupo più aggressivo perché cacciato ed invaso nel suo habitat, proprio in quel periodo l’evangelizzazione cristiana si andava espandendo in centro e nord Europa. Non è da escludersi che il lupo, animale totemico di tante popolazioni ancora pagane, sia stato oggetto di una campagna di demonizzazione diventando così il simbolo di ogni male possibile.
Il Cristianesimo che, da un lato, aveva decisamente contribuito a creare questo nuovo demone, provvide anche a fornire i necessari antidoti, eleggendo una schiera di santi e beati per contrastare la minaccia dei lupi.
Il più conosciuto, senza dubbio, è san Francesco vissuto a cavallo del 1200, ma prima e dopo di lui ce ne sono stati molti altri, anche se meno famosi. Già nel VI secolo abbiamo sant’Erveo o Hervè, nato in Galles da un menestrello inglese e cresciuto in Bretagna alla corte merovingia di Childeberto. Cieco dalla nascita, mentre si trovava nel monastero di Plouvien insieme al suo giovane aiutante Guirano, un lupo divorò l’asino che stava tirando l’aratro. Hervè lo ammansì e lo aggiogò a sua volta, consentendo così di portare a termine il lavoro di aratura.
L’episodio della uccisione di un animale da soma e la successiva sostituzione con il lupo è una costante che si ripropone in molte vite di santi e beati.
A cavallo tra VII ed VIII secolo nel nord della Francia, nella regione del Pais de Calais, troviamo Santa Austreberta, badessa benedettina di Pavilly. Anche in questo caso l’asino, addetto al trasporto della biancheria dal convento alla lavanderia, cade sotto l’assalto di un lupo, il quale viene domato dalla santa e, da quel giorno, sostituito al posto della sua vittima.
San Guglielmo (Vercelli 1085- Goleto 1142) in viaggio verso la Palestina si fermò nell’avellinese dove a Mercogliano fondò l’abbazia di Montevergine. Mentre viveva da eremita sulle montagne dell’Irpinia il suo asino, unico e prezioso mezzo di trasporto, fu ucciso da un lupo che venne prodigiosamente trasformato in un mansueto animale da soma.
Lo stesso accadde a Sant’Amico, intorno alla metà del XII secolo, mentre si trovava nel monastero di San Pietro Avellana in Alto Molise da cui usciva ogni mattina per recarsi nel bosco a raccogliere legna da ardere. Un giorno, appena arrivato, si era disteso per riposare i piedi quando un lupo si avventa sulla sua mula e la abbatte. Sant’Amico, senza scomporsi, prende il basto della mula e lo pone sulla schiena del lupo costringendolo, da allora, a trasportare la legna al convento.
Negli stessi anni, e sempre in Molise, un episodio analogo capitò al Beato Giovanni eremita da Tufara. Mentre era intento all’edificazione del Monastero di Santa Maria del Gualdo in territorio di Foiano Val Fortore, nel bosco Mazzocca, un lupo assalì e divorò l’asino che serviva al trasporto delle pietre necessarie alla costruzione. Il beato non si perse d’animo e chiamato a sé il lupo gli sistemò il basto sulla schiena destinandolo, anche in questo caso, a sostituire l’animale che aveva ucciso.
Altri santi invece sono rimasti famosi per aver ammansito dei lupi feroci, proprio come san Francesco.
Tra i più noti San Domenico di Sora che, intorno all’anno Mille, lasciato l’eremitaggio di Prato Cardoso, presso il lago di Scanno, per raggiungere il territorio di Cocullo assisté ad una scena straziante: gente affannata che correva gridando dietro ad un lupo che teneva un neonato tra le fauci, mentre una povera donna, sorretta da altre, piangeva disperatamente strappandosi i capelli. A quella vista S. Domenico alzò gli occhi al cielo e impose al lupo di tornare indietro. Con stupore di tutti, a quel comando, la belva cessò di correre e, rifacendo la strada percorsa, si diresse umilmente verso il Santo ai piedi del quale depose sano e salvo il bambino, che fu subito restituito alla madre. Questo miracolo viene ricordato ogni prima domenica di maggio a Pretoro (AQ).
E così via fino ad arrivare ad un gigante della fede come Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù. Anche sulla sua figura la tradizione popolare ha elaborato racconti soprattutto del suo legame con i lupi. Sicuramente molto è dovuto al suo stemma familiare che raffigura un paiolo sormontato da due lupi, in spagnolo lobos y olla; dalla ablazione di alcune lettere LOBOS Y OLLA e successiva fusione, deriva il titolo del casato di Sant’Ignazio. Ma la trasmissione orale narra che quando sant’Ignazio predicava tra le montagne abruzzesi, un branco di lupi affamati assalì greggi e bambini. Gli abitanti terrorizzati, supplicarono il santo che faceva penitenza tra i verdi pascoli, di salvarli da tanta ferocia. Sant’Ignazio, senza paura, si inoltrò in mezzo ai lupi, si sedette a terra e iniziò a leggere la vita di Gesù Cristo. I lupi si accovacciarono e, tranquillizzati, ascoltarono le parole del santo. Finita la lettura tornarono tra le montagne, senza più spaventare la gente del paese.
Ed è sempre nel Medioevo che torna in auge il mito classico dell’uomo-lupo, della licantropia. Le leggende riguardanti gli uomini–lupo si moltiplicano in tutta Europa, in costante espansione fino al 1700, con punte di massima tra il 1300 e il 1600, periodo in cui si intensificarono le caccie alle streghe. I roghi dell’Inquisizione sono stati molto spesso alimentati con presunti lupi mannari. Dal Settecento, il secolo dell’Illuminismo, si tenderà a sconfessare la possibilità che un essere umano possa trasformarsi fisicamente in un lupo, e la licantropia rimarrà contemplata solamente dalla psichiatria come affezione patologica. Anche se questa credenza rimarrà invece ben radicata nel folclore locale.
La stessa sequenza temporale la ritroviamo nel mondo delle favole. Infatti i favolisti classici , attribuirono al lupo difetti tipicamente umani quali la malvagità, la stoltezza, la cupidigia, l’avidità e la prepotenza, la brutalità, ma nulla di più. È in pieno medioevo che, anche qui, si affaccia il lupo antropofago divoratore di esseri umani. Nel primo quarto dell’XI° secolo Egbert de Líège scrive La petite fille épargnée par les louveteaux. In questo racconto, dove una bambina vestita di rosso viene rapita da una lupa e portata nella sua tana, viene anticipato quello che costituirà il tema centrale di Cappuccetto Rosso, favola ben più nota che esordirà nel 1697 nella raccolta I racconti di Mamma Oca di Charles Perrault.
Ora nonostante questa fiaba sia stata oggetto di svariate letture, anche in chiave psicoanalitica, arrivando a sostenere che in realtà il lupo del racconto non è l’animale che noi conosciamo, bensì l’uomo in veste di seduttore, c’è un dato di fatto che non può essere sottaciuto. Infatti nel periodo immediatamente precedente la pubblicazione della favola di Cappuccetto Rosso, il quinquennio 1691-1695, in Francia si verificò il maggior numero di attacchi di lupo all’uomo con più di 200 vittime .
Il famoso “fondo di verità” che c’è in ogni fiaba e in ogni leggenda.
In conclusione il rapporto tra uomo e lupo, altalenante tra amore e odio, tra fascino e repulsione, è passato nei secoli dall’ammirazione alla domesticazione, dalla paura alla demonizzazione per approdare, poi, allo sterminio pianificato.
Per raggiungere questo obiettivo, l’eliminazione del lupo dalla faccia della Terra, l’uomo ha utilizzato un’ampia gamma di mezzi, dimostrando un’inventiva non comune.
Ma questa è tutta un’altra storia.