Giuseppe Mazzini
Il primo incontro fra Garibaldi e Mazzini ebbe luogo nel dicembre del 1833, a Marsiglia. Non fu un colpo di fulmine. Tutt’altro. Arrestato a Genova tre anni prima, come affiliato alla Carboneria, Mazzini era stato condannato all’esilio. A Marsiglia viveva da clandestino, ma la sua fama di apostolo rivoluzionario era già tale da permettere a qualunque fuoruscito di rintracciarlo senza difficoltà. E la sua dimora era meta di pellegrinaggio di tutti i patrioti che volevano affiliarsi alla Giovine Italia. Garibaldi seguì la trafila. Nelle Memorie lasciò intendere di non aver provato una grande simpatia per quel pensatore altero e aristocratico. «Allora», scrisse, «non avrei neppure sospettato che una comunanza di principi un giorno mi avrebbe unito a costui. Nessuno ancora conosceva quel caparbio, quell’ostinato pensatore che nulla valse a distogliere dalla missione intrapresa, neppure l’ingratitudine dei suoi discepoli». Mazzini, per suo conto, non fu colpito da quel giovanotto: lo trovò volgare e ignorante, e non si rese conto delle qualità (l’onestà, l’entusiasmo e il coraggio) che ne avrebbero fatto un protagonista del Risorgimento. In ogni caso, lo accettò nelle file della sua organizzazione. Aveva bisogno di mano d’opera, perché le rivoluzioni si progettano fra persone di alti ideali, ma si realizzano con l’ausilio di quanti sono disposti a combattere, e a rischiare la pelle. Mazzini e Garibaldi si sarebbero incontrati molte altre volte negli anni a seguire. Fra i due rimase sempre il diaframma di un’antipatia reciproca: erano troppo diversi, e se ne rendevano pienamente conto. Ma ciascuno dei due era indispensabile all’altro.
Vittorio Emanuele
Il 2 marzo 1859, Garibaldi fu ricevuto da Vittorio Emanuele II. Il generale – che più di una volta si presentò in parlamento con il poncho e gli stivali – si fece prestare dal marchese Giorgio Guido Pallavicino Trivulzio (suo compagno d’armi, che in seguito sarebbe stato nominato prefetto di Palermo) l’abito da cerimonia con le code. Non si hanno resoconti del colloquio, ma non vi è dubbio che i due si piacquero a prima vista. Erano umanamente molto simili: di gusti semplici (se non addirittura campagnoli), parlavano un italiano sorretto da molti francesismi, amavano più la guerra della politica, più le contadine delle gentildonne, più il sigaro dell’acqua di lavanda. A Garibaldi non erano piaciute le trattative segrete con la Francia e l’accordo per il matrimonio di Maria Clotilde con il cugino di Napoleone III. Non gli piaceva l’idea che si dovesse chiedere l’aiuto ai francesi per completare l’unità nazionale. Non gli piacevano i francesi tout-court. Ma gli era piaciuto, e molto, il discorso nel quale il sovrano aveva fatto riferimento al «grido di dolore» che «da tante parti d’Italia si leva verso di noi». All’indomani Garibaldi confidò a un amico, Agostino Bertani: «Questa volta facciamo sul serio. Bisogna stare tutti uniti. Conto beninteso su di voi e sui nostri comuni amici». I rapporti fra Garibaldi e il re avrebbero conosciuto alti e bassi, negli anni a seguire. Teano – l’incontro storico nel quale l’eroe consegnò al sovrano l’Italia meridionale – fu uno dei momenti bassi. Il generale era deluso. Il re era sospettoso. Ma ciascuno dei due continuò, nel tempo, a considerarsi amico dell’altro.
Nizza, la città natale
Il legame con la città natale non fu mai tradito da Garibaldi. L’incipit delle Memorie (curate da Alexandre Dumas) è dedicato a Nizza: «Sono nato a Nizza il 4 luglio 1807, non solo nella casa, ma nella camera dove prima di me nacque Massena. L’illustre maresciallo, come è risaputo, era figlio di un fornaio. Anche al giorno d’oggi, al pianterreno, vi è la bottega di un panettiere». Soffrì moltissimo l’Eroe quando Nizza fu ceduta alla Francia. Vittorio Emanuele, per consolarlo, gli trasmise un messaggio attraverso Stefano Türr, primo aiutante di campo nella spedizione dei Mille: «Dite al generale che non è soltanto Nizza, ma anche la Savoia. Ditegli pure che, se abbandono io il Paese dei miei avi, più facilmente può farlo lui ad abbandonare il suo, dove lui è solo nato». Il 18 marzo 1861, in parlamento, guardando Cavour, disse: «Io domando ai rappresentanti della Nazione se, come uomo, potrò mai stringere la mano a colui che mi ha reso straniero in Italia».
Alessandro Manzoni
Nella primavera del 1862 – pochi mesi prima dell’incidente dell’Aspromonte – Garibaldi si recò, a Milano, a rendere omaggio (nella sua abitazione di via Morone) ad Alessandro Manzoni. Il vecchio scrittore (allora settantasettenne) lo accolse con grandi onori: «Sono io che devo prestare omaggio a voi, io che mi trovo ben piccolo dinanzi all’ultimo dei Mille, e più ancora dinanzi al loro Duce!». Pochi sanno che Manzoni fu un protagonista autentico del Risorgimento. Nominato senatore da Vittorio Emanuele II nel 1860, l’autore dei Promessi sposi fu uno dei più convinti fautori della scelta di Roma come capitale d’Italia. Il progetto appariva in contrasto con la sua profonda fede cattolica: in realtà, Manzoni aveva maturato l’idea che la perdita del potere temporale non avrebbe potuto risolversi altro che in un vantaggio per la Chiesa. Nel dicembre 1864, quando il parlamento fu chiamato a votare il trasferimento della capitale a Firenze (come viatico per la scelta successiva di Roma), i leader del partito cattolico-moderato (primo fra tutti D’Azeglio) tentarono di dissuadere Manzoni dal partecipare al voto. Il vecchio scrittore, caparbio nel difendere le proprie idee, non dette ascolto a nessuno, e si recò a Torino. La Chiesa non lo perdonò: quandò morì, nel 1873, la Civiltà Cattolica gli dedicò solo poche righe.
Tutte le date della vita di Garibaldi
4 luglio 1807 – | Nasce a Nizza, figlio di Domenico, marinaio, e di Rosa Raimondi.
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1814 – | Il 30 maggio Nizza è riannessa ufficialmente al regno di Sardegna.
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1833 – | Incontra per la prima volta Mazzini. Si arruola nella marina da guerra piemontese.
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1834 – | Latitante in Francia, viene condannato a morte.
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1836 – | Arriva a Rio de Janeiro.
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1837 – | Combatte per la repubblica di Rio Grande del Sud contro il Brasile. A giugno viene ferito gravemente in un combattimento navale contro gli uruguayani. Fatto prigioniero, tenta la fuga. |
1839 – | Incontra Anita.
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1840 – | Nasce il primogenito Menotti.
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1842 – | Assume il comando della marina da guerra dell’Uruguay. Sposa Anita.
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1846 – | Battaglia di San Antonio.
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1848 – | Rientra in Italia. Partecipa alla Prima guerra d’indipendenza. Viene eletto deputato di Chiavari.
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1849 – | Combatte nella Repubblica Romana. Il 4 agosto muore Anita.
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1852-53 – | Viaggia in Cina, Australia, Sud America.
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1855 – | Acquista metà dell’isola di Caprera.
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1859 – | Partecipa alla Seconda guerra d’indipendenza.
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1860 – | Sposa Giuseppina Raimondi, dalla quale si separa il giorno stesso. Spedizione dei Mille.
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1862 – | Ferito sull’Aspromonte dai bersaglieri.
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1866 – | Partecipa alla Terza guerra d’indipendenza.
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1867 – | Viene arrestato a Sinalunga. Combatte a Mentana contro i pontifici.
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1870 – | Combatte con i francesi a Digione.
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1880 – | Sposa civilmente Francesca Armosino, da 14 anni sua convivente. |
1882 – | Muore il 2 giugno a Caprera.
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Pio IX
Fosse stato per Garibaldi, Roma sarebbe stata conquistata con largo anticipo. Provò più volte a raggiungere Roma, ed occuparla, cacciando «il prete nemico del genere umano», come definì Pio IX nelle Memorie. Fu fermato nel 1860 dall’esercito piemontese, mentre tentava di completare l’unità d’Italia (dopo aver sconfitto i Borbone nelle Due Sicilie). Fu bloccato dall’esercito regio nel 1862, sull’Aspromonte (beccandosi anche due “palle di carabina”). Fu arrestato a Sinalunga, nel settembre 1867, mentre cercava – ancora una volta – di organizzare una spedizione. Fu sconfitto a Mentana, nel novembre 1867, dagli chassepots (i fucili a ripetizione francesi). Pio IX non meritava le invettive di Garibaldi. Non era aggrappato al potere temporale quanto sembrava ai suoi avversari. Giulio Andreotti, profondo conoscitore della figura di Mastai Ferretti, ha raccontato (Sotto il segno di Pio IX) che, all’inizio del 1867 (l’anno di Sinalunga e di Mentana), «in una udienza a cattolici del Nord Italia, un sacerdote gli sussurrò una strana frase: “Santità, Garibaldi non è cattivo”. Fu pronta la sua risposta: “Se lei ha modo di sentirlo gli dica che quello che egli chiama il Vampiro del Vaticano lo perdona; non gli vuole male; prega per lui ed ha anche per lui celebrato una Santa Messa”».
Anita, la preferita
Garibaldi incontrò Anita, nel 1839, a Laguna, nella regione di Santa Catarina, nel sud del Brasile. Il suo racconto – nelle Memorie – ha il sapore del romanzo. La vide con il cannocchiale, dalla tolda della nave. Scese a terra, ma di quella donna s’era persa ogni traccia. Poi un abitante del paese lo invitò in casa a prendere un caffè. E lì – quando si dice il destino! – si ritrovò davanti lei.
«Era Anita! La madre dei miei figli! La compagna della mia vita, nella buona e cattiva fortuna! La donna, il di cui coraggio io mi sono desiderato tante volte! Restammo entrambi estatici, e silenziosi, guardandoci reciprocamente, come due persone che non si vedono per la prima volta, e che cercano nei lineamenti l’una dell’altra qualche cosa che agevoli una reminiscenza. La salutai, e le dissi: “Tu devi essere mia”. Parlavo poco il portoghese, ed articolai le proterve parole in italiano. Comunque, io fui magnetico nella mia insolenza».
Un po’ retorico, un po’ immaginifico, un po’ cialtrone. I particolari sono di fantasia, ma la sostanza andò davvero così. Si conobbero, si piacquero, si misero insieme. Erano fatti l’uno per l’altra. Lei – messa in ombra dall’eroismo di lui – non era da meno del generale. Era una donna orgogliosa, forte, volitiva, piena di ideali. Conobbe Giuseppe che aveva appena 18 anni. Era nata a Morrinhas, nella provincia di Laguna. Rimasta orfana del padre, un pescatore, a quattordici anni aveva sposato un certo Manuel Duarte de Aguiar, un codardo che parteggiava per gli imperiali.
Aninhas Ribeiro da Silva – Anita per Garibaldi, che per lei era Josè – si sentiva stretta in quel matrimonio. Non che aspirasse al benessere. Aspirava alle emozioni. Voleva un uomo da rispettare, a condizione che meritasse di essere rispettato. Duarte non meritava. Garibaldi, provava un senso di colpa nell’aver portato via Anita a un altro uomo («Errai grandemente», scrive nelle Memorie). Lei, no. Si sposarono il 26 marzo 1842, in chiesa, dichiarando sotto giuramento che il marito, Duarte, era morto. Ebbero quattro figli e, quando morì, Anita era incinta per la quinta volta. La primogenita, che morì a due anni, ebbe il nome della nonna: Rosa. Il secondo si chiamò Menotti, come il patriota impiccato a Modena nel 1831. Poi venne Teresita, che fu chiamata come la sorellina di Giuseppe, morta tra le fiamme a tre anni. E infine Ricciotti, come il patriota fucilato nel 1844 con i fratelli Bandiera.
Nei giorni della difesa della Repubblica Romana, Anita non era più la vigorosa cavallerizza del Rio Grande che il marito chiamava l’amazzone brasiliana, ma una figurina fragile, e stanchissima. L’agonia di Anita si consumò vicino Ravenna. Fuggiva, con il suo Josè, soffrendo la fame, la sete, le marce forzate.
Nelle Memorie, Giuseppe Garibaldi racconta così gli ultimi momenti di vita della sua compagna: «Giunsimo alla Mandriola, e stava Anita coricata su d’un materasso, nel birroccio che l’avea condotta. Dissi, allora, al dottor Zannini, giunto pure in quel momento: “Guardate di salvare questa donna!”. Il dottore a me: “Procuriamo di trasportarla in letto”. Noi allora presimo, in quattro, ognuno un angolo del materasso, e la trasportammo in letto di una stanza della casa, che si trovava a capo di una scaletta della stessa. Nel posare la mia donna in letto, mi sembrò di scoprire nel suo volto la fisionomia della morte. Le presi il polso… più non batteva!». Era il 4 agosto 1849, alle ore 15 e 45.
Le altre donne
Come è d’abitudine fra i marinai, Garibaldi ebbe parecchie relazioni. Anita fu la più importante. Francesca Armosino fu il bastone della sua vecchiaia. Giuseppina Raimondi fu la ferita più grave della sua vita. La conobbe nell’estate del 1859. Lei aveva appena diciotto anni ed era la figlia di un marchese garibaldino, lusingato di diventare il suocero di un eroe. Dopo un brevissimo fidanzamento segreto, Giuseppe (che attendeva allora un figlio da una popolana, Battistina Ravello) e Giuseppina si sposarono il 24 gennaio 1860, nella cappella privata della tenuta Raimondi, alla presenza di due testimoni. Al termine della cerimonia un uomo si avvicinò a Garibaldi e gli consegnò un biglietto anonimo con le prove che la marchesina aveva due amanti: il giovane tenente Luigi Caroli e un cugino, il marchese Rovelli. Lei era anche incinta. Sulla porta della chiesa, Garibaldi la coprì di insulti. Non l’avrebbe vista mai più. Il matrimonio sarebbe stato annullato soltanto diciannove anni dopo, permettendogli finalmente di sposare con rito civile Francesca Armosino, sua compagna da 14 anni, che gli aveva dato altri tre figli: Clelia, Rosa e Manlio (che si aggiunsero a Menotti, Ricciotti e Teresita, i tre avuti da Anita).
Nino Bixio
«Dopo Garibaldi», scrisse Francesco De Sanctis, critico letterario e patriota, «colui che pigliava posto nell’immaginazione popolare era Bixio. Appartenevano a quella tempra di uomini straordinaria e veramente epica, che suscita il meraviglioso e crea la leggenda». Giuseppe Cesare Abba, uno dei Mille, lo descrisse così sul ponte di comando del Lombardo: «Sta sul castello come schiacciasse un nemico. L’occhio fulmina per tutto. Si vede che sa far tutto da sé. Fosse in mezzo all’oceano, abbandonato su questa nave, lui solo, basterebbe a cavarsela». Era un uomo d’azione Girolamo (Nino) Bixio, dotato di un coraggio e di una lealtà impareggiabili. Una macchia, nella sua carriera: il 4 agosto 1859, a Bronte, in Sicilia, fece fucilare i responsabili di una rivolta in una tenuta agricola, nella quale i contadini avevano massacrato l’amministratore simpatizzante dei garibaldini. L’anno dopo, deputato al parlamento (quando esplose il dissidio fra Garibaldi e Cavour), Bixio mostrò moderazione e buonsenso. «Io sono fra coloro che credono alla santità dei pensieri che hanno guidato il generale Garibaldi in Italia, ma appartengo anche a quelli che hanno fede nel patriottismo del signor Conte di Cavour. Domando adunque che nel nome del Santo Dio si faccia una Italia al di sopra dei partiti».
Caprera
Caprera, il buen retiro. «Se un giorno avrò diecimila lire», ripeteva spesso Garibaldi, «mi comprerò un’isola». Nel 1855, il fratello Felice, morendo, gli lasciò in eredità 35mila lire. Più o meno nello stesso periodo, altre 25mila lire gli arrivarono dall’America, come arretrati per i suoi servizi di capitano marittimo. Durante un viaggio in Sardegna, visitò Caprera, che era semideserta. Il 29 dicembre 1855 firmò un contratto per l’acquisto di metà isola. Andò a viverci un anno e mezzo più tardi, dopo aver costruito (prendendo ordini da un ex prete, che gli faceva da capomastro) una casa bianca, in stile sudamericano, con quattro camere in un piano solo. In teoria, l’isola era il posto ideale per vivere in solitudine. Ma quando lui si trovava lì, era un continuo viavai di visitatori: diplomatici, giornalisti, scrittori, patrioti. E, soprattutto, signore. Aveva superato i cinquant’anni, il generale, ma continuava a conquistare il cuore di molte donne. S’alternarono a Caprera la duchessa di Sutherland, la signora Seely, la contessa Maria Martini della Torre, e Maria Espérance von Schwartz, scrittrice, che avrebbe poi dato alle stampe una delle versioni delle Memorie (firmata con lo pseudonimo Elpis Melena). Nel testamento, Garibaldi lasciò scritto: «Il mio cadavere sarà cremato con legna di Caprera nel detto sito da me indicato con asta di ferro, e un pizzico di cenere sarà chiuso in urna di granito collocata nella tomba delle mie bambine sotto l’acacia ivi esistente. La mia salma vestirà camicia rossa, la testa nel feretro o lettino di ferro appoggiato al muro verso tramontana con volto scoperto, i piedi all’asta».
L’inno di Mercantini
Il 31 dicembre 1858, a Genova, fu eseguito per la prima volta l’Inno di Garibaldi, scritto dal poeta Luigi Mercantini, musicato da Alessio Olivieri, autore di marce e di canzoni patriottiche. Luigi Mercantini (amico di Goffredo Mameli) aveva conosciuto Garibaldi dopo aver scritto La spigolatrice di Sapri, la poesia che ricordava l’impresa di Carlo Pisacane, quella che inizia con i versi «Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti». L’eroe lo sollecitò a dedicare una canzone ai volontari in camicia rossa, e agli ideali che ispiravano le loro imprese. Nacquero così i versi che accompagnarono le camicie rosse nel 1860 e che da un secolo e mezzo sono legati alla memoria dell’Eroe dei due Mondi: «Si scopron le tombe, si levano i morti, i martiri nostri son tutti risorti! Le spade nel pugno, gli allori alle chiome, la fiamma ed il nome d’Italia nel cor». E quelli che costituiscono il battagliero e incalzante refrain dell’Inno: «Va’ fuori d’Italia, va’ fuori ch’è l’ora! Va’ fuori d’Italia, va’ fuori o stranier!».
La camicia rossa
La leggendaria camicia rossa fu adottata per la prima volta in Sud America. Per caso, come spesso accade per le scelte che si rivelano storiche. Era il 1843: Garibaldi doveva dare un’uniforme alla Legione Italiana (da lui formata) che s’era messa al servizio della Repubblica dell’Uruguay contro l’Argentina. In una fabbrica di Montevideo fu acquistata, a prezzi bassissimi, una partita di tuniche rosse, (destinata agli operai dei macelli di carne salata), rimasta invenduta proprio a causa del conflitto. Il colore serviva a occultare le macchie di sangue degli animali uccisi. Al ritorno in Italia, Garibaldi volle mantenere l’uso di quell’uniforme. Il rosso rendeva i suoi uomini più facilmente individuabili (e quindi maggiormente esposti al fuoco nemico), ma testimoniava anche il loro coraggio. Inizialmente (nella Prima guerra d’indipendenza e nella Repubblica Romana) furono pochi i volontari che indossarono quella divisa, che divenne ufficiale soltanto dopo la battaglia di Palestrina, nel maggio 1859. Nella spedizione dei Mille, i volontari si imbarcarono in borghese. A bordo, durante il viaggio verso Marsala, furono distribuite cinquanta camicie rosse. Fu Alexandre Dumas – a bordo del suo panfilo Emma – a organizzare una piccola fabbrica artigianale di camicie rosse, che permise a quasi tutti i garibaldini di combattere in uniforme. Lo stesso accadde nel 1866, mentre nel 1870, in Francia, i Cacciatori delle Alpi tornarono agli abiti borghesi (con l’eccezione di chi aveva una camicia rossa di proprietà).
Alexandre Dumas
Un Eroe dei Due Mondi non poteva contentarsi di una sola autobiografia. Distribuiva appunti a destra e a manca, dispensava ricordi, faceva annotare particolari e aneddoti. Furono pubblicate così Memorie autentiche e Memorie apocrife. Quella letterariamente più interessante fu firmata da Alexandre Dumas, amico a tal punto di Garibaldi, da considerarsi un garibaldino. Il 28 maggio 1860, il romanziere francese (autore dei Tre Moschettieri) annotava nel suo diario: «Avevo appena messo la parola fine alle mie Memorie di Garibaldi», quando «appresi che Garibaldi era salpato alla volta della Sicilia nella notte fra il 5 e il 6 maggio». Scrupoloso, il generale si era preoccupato di lasciare un quaderno di appunti ad amici comuni, perché fossero consegnati allo scrittore. Ma era chiaro che le Memorie sarebbero risultate largamente incomplete se non si fosse tenuto conto delle nuove imprese.