Eroi d'Italia - 1 - Giuseppe Garibaldi

Il più popolare – non soltanto in Italia – dei nostri eroi nazionali fu protagonista assoluto del Risorgimento, insieme a Vittorio Emanuele II (per il quale nutriva un affetto sincero), Mazzini (che non amava), Cavour (che non sopportava), Pio IX (che odiava). Molto più di ciascuno di loro colpì l’immaginazione popolare. Era un uomo semplice, dotato di un coraggio senza pari e di una innata capacità di comunicazione con le folle. Fu uno straordinario combattente e un pessimo politico. Faceva strage di cuori femminili – senza distinzione fra popolane e aristocratiche – ma preferiva di gran lunga le prime rispetto alle seconde. Ebbe due soli grandi amori, Anita, di cui invidiava il coraggio, e Francesca Armosino, che fu il bastone della sua vecchiaia
C’è una battuta di Bertolt Brecht (Vita di Galileo) che è stata citata milioni di volte, a proposito e a sproposito: «Triste è quel Paese che ha bisogno di eroi». In realtà, tutti i Paesi hanno bisogno di eroi: per nascere, per crescere, per formarsi una memoria storica. Lo sapeva Goffredo Mameli (eroe lui stesso, morto giovanissimo nella difesa della Repubblica Romana del 1849), che dedicò la decima e l’undicesima strofa del suo Inno nazionale agli uomini che avevano contribuito a creare lo spirito patriottico italiano: «Dall’Alpe a Sicilia / Dovunque è Legnano, Ogni uom di Ferruccio / Ha il core, la mano. // I bimbi d’Italia / Si chiaman Balilla; / Il suon d’ogni squilla / I Vespri suonò». I riferimenti meritano di essere spiegati. Il primo è alla battaglia di Legnano del 1176, in cui la Lega Lombarda sconfisse l’imperatore Federico Barbarossa: il leader della Lega era Alberto da Giussano. Il secondo è per la disperata difesa di Firenze, assediata nel 1530 da Carlo V (d’intesa con papa Clemente VII) per rimettere sul trono i Medici: nella battaglia di Gavinana si distinse il capitano Francesco Ferrucci, che riportò una vittoria campale; ferito e catturato, fu assassinato da un italiano al soldo straniero, Fabrizio Maramaldo. Il terzo episodio porta alla Genova del 1746, quando un ragazzo, Giovanni Battista Perasso, soprannominato Balilla, lanciò un sasso contro un drappello di soldati austriaci, dando il via alla rivolta contro gli occupanti. Infine, il «suon d’ogni squilla» è il suono delle campane che la sera del 30 marzo 1282 chiamò i palermitani all’insurrezione (i Vespri siciliani) contro i francesi di Carlo d’Angiò. L’eroe di quelle giornate fu Giovanni da Procida. Uomini che hanno contribuito a scrivere la storia del nostro Paese, come – prima di loro – Scipione l’Africano, anch’egli ricordato da Mameli (l’elmo di Scipio). A loro dedicheremo le puntate di questa serie. E ad altri, come Garibaldi (eroe simbolo del Risorgimento), Enrico Toti (patriota della Prima guerra mondiale), Masaniello, simbolo dell’insofferenza napoletana contro gli occupanti spagnoli. Ed altri ancora.

Giuseppe Garibaldi

Il primo incontro fra Garibaldi e MazziniAltro che eroe! Garibaldi è l’Eroe dei due Mondi, il combattente per la libertà che non teme confronti nell’immaginario collettivo. Nel testamento politico (dettato nel 1871, undici anni prima di morire) scrisse: «Io lego l’amore mio per la libertà e per il vero, il mio odio per la menzogna e la tirannide». Come è possibile non schierarsi dalla sua parte? Si impara ad amarlo sui banchi di scuola, dove il racconto delle sue gesta ottiene il medesimo effetto dei film di cappa e spada. Ha ragione uno dei suoi biografi, il francese Max Gallo: era bello e pieno di fascino. «Fra il 1830 e il 1880, lungo tutto quel mezzo secolo di rivoluzioni, durante il quale egli fu partecipe di tanti eventi da sembrare piuttosto eroe di romanzo che attore reale della storia, i suoi lineamenti non sono quasi mutati». Eccoli, i lineamenti: «Quando percorreva la tolda delle navi, con quei suoi lunghi capelli biondi e la barba ricciuta, aveva la bellezza romantica d’uno di quegli essere impetuosi che, spinti dallo slancio d’un secolo all’inizio, si gettavano all’assalto della vita. Per la fronte ampia, il profilo regolare, la sensibilità tanto evidente, si sarebbe potuto scambiare quel marinaio per un poeta o uno scrittore. Ed egli lo fu. Ma, temprato dallo sforzo fisico, il corpo era vigoroso, larghe le spalle ed il petto. Se la parte inferiore del volto, mascherata dalla barba, era un po’ meno energica, indice d’una natura esitante, quel giovane aveva però la struttura dell’uomo d’azione. Ed egli fu uomo d’azione prima d’ogni altra cosa».

Un biografo inglese, Denis Mack Smith, lo racconta così: «Con tutti i suoi difetti, Giuseppe Garibaldi ha un suo posto ben fermo fra i grandi uomini del secolo decimonono. Ebbe una sua grandezza, in primo luogo, come eroe nazionale, come famoso soldato e marinaio, cui più che ad alcun altro si dovette l’unione delle due Italie. Ma oltre che patriota, egli fu anche grande internazionalista; e nel suo caso non era un paradosso. Liberatore di professione, combatté per la gente oppressa, ovunque ne trovasse. Pur avendo la tempra del combattente e dell’uomo d’azione, riuscì ad essere un idealista nettamente distinto dai suoi contemporanei di mente più fredda. Tutto quello che fece, lo fece con appassionata convinzione e illimitato entusiasmo; una carriera piena di colore e d’imprevisto ci mostra in lui uno dei più romantici prodotti dell’epoca. Inoltre, era persona amabile e affascinante, di trasparente onestà, che veniva ubbidita senza esitazioni e per la quale si moriva contenti. La gente comune lo sentiva uno dei propri, perché egli era l’incarnazione dell’uomo comune».

Due ritratti di mano straniera. Non a caso. Fra tutti i protagonisti della storia italiana, Garibaldi è sicuramente quello che suscitò maggiori entusiasmi fuori dei confini patrii. E non solo perché compì alcune memorabili imprese combattendo per la libertà di altri popoli (per un decennio, fra la seconda metà degli anni Trenta e la seconda degli anni Quaranta, nell’America Latina; nel 1870-71 per i francesi contro i prussiani), ma anche perché – in un’epoca nella quale la comunicazione globale era agli esordi – i romantici (e, soprattutto, le romantiche) di tutto il mondo impazzivano per le sue gesta. I francesi tentarono di appropriarsene a posteriori, basandosi sulla considerazione che Nizza era ormai loro (e dimenticando che per cinque secoli era stata dei Savoia). Gli era riuscito con il corso Napoleone, non gli riuscì con il nizzardo Giuseppe. I tedeschi ci provarono ugualmente. Maria Espérance von Schwartz (autrice con lo pseudonimo di Elpis Melena, Speranza Nera, di una versione autorizzata delle Memorie dell’Eroe) scoprì che Garibaldi discendeva da un certo barone von Neuhof, per breve tempo re di Corsica, una nipote del quale aveva sposato un Garibaldi, a Rüggeberg, in Westfalia. (Ricerche effettuate nei registri della cittadina non approdarono a nulla, ma intanto molti tedeschi gonfiavano il petto, sostenendo che era evidente come il generale avesse ereditato le virtù guerriere della stirpe teutonica).

Due aneddoti possono aiutare a chiarire ulteriormente la popolarità internazionale di Garibaldi. Caprera era meta di un pellegrinaggio continuo di gente che voleva rendergli omaggio. Tra i frequentatori assidui figuravano il duca e la duchessa di Sutherland. Una volta non lo trovarono in casa. Il garibaldino Francesco Bideschini li introdusse nella cameretta del generale. Dopo un po’ di attesa il duca invitò la moglie a guardare dalla finestra con il binocolo. Preso lo strumento e scrutato l’orizzonte, lei esclamò: «Eccolo! L’ho visto: Dio mio, sta cucendo seduto su uno scoglio». «Cucendo cosa?», domandò il duca. E Bideschini chiarì i dubbi: «Sta attaccando dei bottoni a un paio di calzoni vecchi».

Un’altra volta (era il 1864), durante un viaggio trionfale in Inghilterra, Garibaldi andò a trovare, nell’isola di Wight, il poeta Alfred Tennyson. Prima del congedo, Tennyson lo pregò di piantargli un albero nel giardino della sua casa. Alcuni giorni dopo l’albero era completamente spoglio. Gli abitanti dell’isola avevano fatto a gara per impadronirsi ciascuno di una foglia, in ricordo dell’eroe. Oggi una cosa del genere potrebbe accadere a Brad Pitt, o a George Clooney. Non ad un generale. Non ad un politico. Non ad un eroe.

Fatto d'armi in San Antonio nella Repubblica Orientale dell'Uruguay, litografia (Genova, Museo del Risorgimento)UNA VITA DA ROMANZO. Raccontare la vita di Garibaldi è praticamente impossibile, se non dedicandole un volume (ponderoso). Ed è, oltretutto, inutile. Chi non sa che nacque a Nizza, che si rifugiò in Sud America per combattere per la liberazione del Rio Grande del Sud, che lì incontrò Anita, che rientrò in Italia per partecipare alla Prima guerra d’indipendenza, che guidò la difesa della Repubblica Romana, che comandò un corpo di volontari nella Seconda guerra d’indipendenza. Poi ci fu la spedizione dei Mille, che consolidò la fama dell’uomo ed aprì la leggenda. A Teano – nell’incontro con Vittorio Emanuele – la vulgata vuole che dicesse al sovrano: «Saluto il primo re d’Italia», e che l’altro rispondesse: «E io saluto il mio migliore amico». Il decennio seguente lo mise spesso in rotta di collisione con il governo italiano. Cavour era morto, e i successori non conoscevano l’arte diplomatica del grande tessitore. Garibaldi fu ferito sull’Aspromonte, fu arrestato a Sinalunga, fu sconfitto a Mentana dai papalini e dai francesi. Si coprì di gloria anche nella Terza guerra d’indipendenza, ma – alla Bezzecca – raggiunto dall’ordine di deporre le armi, rispose: «Obbedisco». Che è una delle tante frasi storiche che gli sono state attribuite: «O Roma o morte», «Qui si fa l’Italia o si muore», per citare le più celebri. Quando l’Assemblea della Repubblica Romana votò la capitolazione, il 30 giugno 1849, Garibaldi, deciso a lasciare la città per continuare la lotta, adunò i suoi in Piazza San Pietro. Era ferito e lacero, accanto a lui Anita. Fu in quell’occasione che ne disse un’altra memorabile: «Non offro né paga, né quartiere, né provvigioni. Offro fame, sete, marce forzate, battaglie e morte». Quasi cent’anni più tardi Winston Churchill l’avrebbe parafrasato, offrendo agli inglesi «lacrime e sangue». La libertà si difende così.

Era, come tutti gli eroi, coraggioso, ma non sanguinario. Quando conquistò Palermo, nel maggio 1860, s’affacciò trionfante nella gran loggia del palazzo d’Angri. Le madri sollevarono con le braccia i loro pargoletti, protendendoli verso di lui. Dalla folla si levò un grido: «Morte ai Borbone e ai preti!». Lui replicò: «Viva l’Italia! E morte a nessuno».

TEMPERAMENTO DIFFICILE. Non era sempre così generoso, e non era sempre così sereno. Per Pio IX nutriva un odio profondo, che lo spinse spesso a tracimare nelle espressioni di disprezzo. Altrettanto livore dimostrò più volte nei confronti di Napoleone III. Non amava Mazzini, e non sopportava Cavour. Era anche rancoroso. Dieci giorni dopo lo scontro parlamentare con il conte, ci tenne a rassicurare i suoi: «Non ho stretto la mano a Cavour». Il primo ministro – più conciliante, in quanto più politico – spiegò con moderazione la cessione di Nizza e della Savoia: «Io ho creduto compiere un dovere doloroso, il più doloroso che abbia compiuto in vita mia. Al dolore che ho provato io, posso comprendere quello che ha dovuto provare l’onorevole generale Garibaldi, e se egli non mi perdona questo fatto, io non gliene faccio appunto». Come parlamentare, Garibaldi fu mediocre. Non era il suo ruolo. Era uomo d’azione, non di riflessione.

Fra le centinaia di biografie dedicate a Garibaldi, la più divertente (e acuta) è probabilmente quella scritta quarant’anni fa da Indro Montanelli (con Marco Nozza). Montanelli sapeva cogliere luci e ombre, con l’arguzia di un toscano navigato, che in vita sua ne aveva già viste parecchie. Nel suo libro ci sono molti riferimenti all’eroe scontroso e irascibile, e alla sua megalomania. Era, in questo, un uomo modernissimo, perennemente preoccupato dell’immagine. Il culto della personalità fu lui stesso a promuoverlo. E se – ad oltre un secolo dalla sua morte – ci si spaventa ancora a «parlar male di Garibaldi», vuol dire che la promozione funzionò, eccome. «Era», scrive Montanelli, «un uomo semplice, generoso, coraggioso e onesto. Ma non era certo il demiurgo che la gente vide in lui. Quanto nelle cose italiane, e specialmente in quelle militari, c’è sempre stato di “squadrista”, cioè d’improvvisato, teatrale, spavaldo e pasticcione, forse ci sarebbe stato anche senza di lui. Ma Garibaldi gli diede un avallo e un blasone. I volontari, gli “arditi”, i “marciatori” su Fiume e su Roma, sono tutti figli suoi». Ed ecco l’altra faccia della medaglia: «A chi non sia cieco», osserva Montanelli, «è chiaro che il Risorgimento si sarebbe fatto anche senza Garibaldi, magari con qualche variazione di orario. Ma non c’è dubbio che egli vi portò un palpito popolare che né il Piemonte col suo esercito e la sua diplomazia, né Mazzini col suo aristocratico rigore ideologico avrebbero mai suscitato. È vero che anche nelle file garibaldine di popolo ce ne fu sempre poco. Però ce ne fu sempre molto ad acclamarlo. E se la lotta per l’unità nazionale finì per acquistare un senso anche agli orecchi e al cervello delle diseredate plebi italiane, fu tutto merito di Garibaldi, il più caratteristico e pittoresco rappresentante di un certo folclore italiano, la “maschera” più congeniale al gusto delle folle». Per concludere: «Nel disperato bisogno che l’Italia dell’Ottocento aveva di eroi, è giusto che il posto di proscenio e il piedistallo più alto siano toccati a lui».

Mille e non più mille

G. Mantegazza, Garibaldi a Caprera (Milano, Museo del Risorgimento) Non si è mai conosciuto con esattezza il numero dei volontari al seguito di Garibaldi al momento dello sbarco a Marsala, l’11 maggio 1860. L’elenco ufficiale, compilato quasi venti anni più tardi, comprendeva 1088 uomini e una donna, Rosalia Montmasson, moglie di Francesco Crispi. Sembra, tuttavia, che il numero effettivo fosse leggermente superiore. Il contingente numericamente più forte era quello proveniente dalla Lombardia: 434 uomini. E la provincia che aveva fornito il contributo più consistente era Bergamo, con un gruppo di 180 volontari. Merito di un aristocratico, il conte Gabriele Camozzi, fervente patriota, che aveva arruolato la maggior parte di loro. Nella villa di Camozzi, a Genova, due anni prima, era stato eseguito per la prima volta l’Inno di Garibaldi. Le altre regioni più rappresentate erano il Veneto (194 uomini), la Liguria (156, quasi tutti genovesi), la Toscana (78, in maggioranza livornesi), la Sicilia (45, per lo più palermitani). Pochi erano i piemontesi, per due ragioni complementari: la scarsa attitudine di quella popolazione alle insurrezioni, e il fatto che molti patrioti si erano già arruolati nell’esercito regolare. Fu compiuto anche uno studio sull’estrazione sociale dei Mille, equamente divisi fra intellettuali e proletari (con la significativa assenza dei contadini, per tradizione conservatori e poco inclini alle avventure, di qualsiasi genere).

La maggior parte dei garibaldini aveva alle spalle altre esperienze cospirative e belliche. Molti avevano combattuto nella Repubblica Romana, parecchi erano veterani della guerra del 1848, altri erano Cacciatori delle Alpi reduci della Seconda guerra d’indipendenza.

I Mille furono il nucleo di partenza. Sul Volturno e a Teano, la spedizione si era infoltita in misura impressionante. Si calcola che alla fine gli uomini al seguito di Garibaldi fossero circa cinquantamila. Poco meno della metà erano accorsi da tutta la Penisola mano a mano che giungevano le notizie dei successi contro l’esercito borbonico; gli altri 25-30mila erano meridionali che s’aggregarono durante la marcia verso il nord.

LA LEGGENDA. Erano mille a Marsala, cinquantamila cinque mesi più tardi, quando la spedizione volgeva al termine. Sarebbero stati centinaia di migliaia, o milioni, qualche decennio più tardi, se Garibaldi fosse vissuto molto più a lungo e se le emergenze nazionali ne avessero richiesto l’intervento. Perché – nel frattempo – l’uomo s’era trasformato in leggenda. Al punto da scatenare il feticismo e il collezionismo (che del primo è la versione elegante). In quante soffitte – in tutta Italia – si conserva ancora la camicia rossa di un parente lontano, ormai difficile da identificare nell’albero genealogico della famiglia. E quante persone (anche di alto livello) conservano ancora oggetti appartenuti (forse) all’Eroe. Uno per tutti: Giovanni Spadolini. Storico, giornalista, presidente del Consiglio fra il 1981 e il 1982, Spadolini aveva una delle più ricche biblioteche di argomento risorgimentale. Ma nella sua casa di Pian dei Giullari aveva raccolto anche cimeli garibaldini, di ogni genere. Ecco una sua descrizione sommaria: «Pipe in legno incise, righelli con divertiti richiami a scene di guerra, ventagli istoriati da mani pazienti e devote, piccole tavole opera di oscuri artigiani, cammei rari e miniature d’epoca, statuine ammiccanti e fotografie impietose, medaglie scabre e medaglie celebrative, busti a rilievo in avorio e fazzoletti multicolori, composizioni pittoriche singolari o stravaganti, dove il culto dell’eroe si tempera in una smorfia di affettuosa ironia. Oppure testimonianze contemporanee e documenti diretti. Ma anche negli omaggi una nota di trepidazione: “Iddio è amore”, ricordano i protestanti inglesi al generale mangiapreti e gran massone, quando il 26 aprile 1864 gli fu donata a Londra una splendida Bibbia, giunta fino a me dalle mani amiche del professor Rotolo di Milano, che l’aveva ricevuta dalla figlia Clelia. Una camicia rossa che era di casa, che apparteneva al nonno materno, volontario a Bezzecca e a Mentana, appena diciottenne, fu malinconicamente dispersa durante gli anni della guerra. Conservo solo un frammento di memoria, fra stupita e ammirata, del ragazzo quattordicenne che sapeva, nella casa della nonna, dove andare a trovarla: una vecchia panca del salotto buono».

AFFETTO. Quel che colpisce è il tono. Spadolini, storico rigoroso, parla di Garibaldi come se si trattasse di un parente da poco scomparso: con lo stesso affetto e la medesima attenzione per le «buone cose di pessimo gusto» che descriveva Gozzano cent’anni fa, nel salotto di Nonna Speranza.

Pietro Giovanni Teodoro Tetar van Elven, La partenza dei Mille (Genova, Museo del Risorgimento)La forza di Garibaldi, e del suo ricordo, è tutta qui. Nel fatto che, per molti italiani, egli è un parente, neanche lontano, la cui gloria è superiore a qualunque ricostruzione se ne voglia proporre. Questo spiega come mai pochi registi si siano cimentati con le sue imprese e i relativi film abbiano avuto un successo modesto: nessuno di essi rendeva all’Eroe la grandezza epica della memoria collettiva. E questo spiega perché, ancora cinquant’anni fa, all’indomani della Seconda guerra mondiale, un blocco di partiti decise di affidarsi all’immagine del generale per la propria campagna elettorale. Centoquarant’anni dopo la sua morte, c’è ancora bisogno di eroi in questo Paese (a dispetto di quel che pensava Brecht). Il cordoglio recente di tutta Italia per gli uomini di Nassiriya è una testimonianza importante in questo senso.

Lui, Garibaldi, si descrisse così nella prefazione delle Memorie: «Vita tempestosa, composta di bene e di male, come credo della maggior parte delle genti, coscienza d’aver cercato il bene sempre, per me, e per i miei simili: e se ho fatto il male qualche volta, certo, lo feci involontariamente. Odiatore della tirannide e della menzogna, col profondo convincimento: esser con esse l’origine principale dei mali, e della corruzione del genere umano». Quasi manzoniano.