Iraq, Palestina, Yemen, Marocco, Libano, Kenya, Cecenia, Pakistan, Indonesia, Sri-Lanka, India, Giappone e New York, 11 settembre 2001, data spartiacque per il mondo occidentale. Il suicidio quale arma di guerra comincia a essere praticato nel XX secolo e continua nel XXI, diffondendosi in contesti radicalmente diversi per cultura, religione, strutture sociali, condizioni economiche. Eterogenei e lontani gli stessi nemici, le motivazioni dell’odio. Soli denominatori comuni sembrano essere la valutazione che non esistano altri mezzi adeguati per colpire e la decisione di dare testimonianza estrema della propria fede (non necessariamente religiosa).
Oggi sono soprattutto i musulmani a uccidersi al fine di uccidere, ma si contano anche indù, scintoisti e militanti molto rari in altre fedi. Chissà cosa potrà succedere nel futuro, anche prossimo. Certamente, combattere senza avere nessuna paura della morte – anzi scegliendola – sconvolge tutti i canoni di guerra così come li conosciamo da sempre. Per Al Qaeda, internazionale del terrore, con adepti di varia nazionalità, per lo più arabi, primo nemico è l’Occidente, identificato principalmente (ma non esclusivamente) con Israele e gli Stati Uniti. Le accuse: umiliare i principi dell’Islam, promuovere l’immoralità e l’ateismo, essere complici dello sterminio dei palestinesi, depredare le risorse naturali dei Paesi musulmani. Altrettanto grande è l’odio verso i regimi musulmani moderni e riformisti, ritenuti conniventi con l’Occidente.
Ipotesi terrificante è che i tentacoli di Al Qaeda stiano lambendo movimenti che sono nati e si sono sviluppati per ragioni ben differenti. Dopo New York, tale sigla, direttamente o indirettamente, ricorre in tutti gli attentati dalla più o meno dichiarata matrice islamica, ben compreso l’Iraq, dove l’odio verso Saddam Hussein non ha necessariamente condotto alla devozione verso gli occidentali. Palestinesi e ceceni, fino a ieri tradizionalmente laici, sono stati, in questi anni, contagiati da deliri religiosi. In entrambi i popoli, l’uso del suicidio come arma di guerra si inquadra nell’ambito di un odio irreversibile verso Tel Aviv e Mosca.
«Tutti i popoli caucasici», afferma il professore Mario Nordio, che alla Ca’ Foscari insegna Storia e Istituzioni dell’Asia e Storia dell’Iran dall’avvento dell’Islam all’età contemporanea, «sono, senza eccezione, combattenti accaniti, gran guerrieri, lottatori. Per uccidere il nemico, uccidono anche se stessi solamente se e quando non c’è proprio alcuna possibile alternativa. Esemplare la leggenda di un gruppo di donne che, fatte prigioniere dai russi, si buttarono dalla zattera annegando ma trascinando nel fiume anche i loro carcerieri: una sorta di mito ricorrente, elaborato su una serie di episodi eroici, avvenuti durante la plurisecolare, feroce, resistenza alla colonizzazione russa».
Ma il fatto che i guerriglieri ceceni abbiano scelto di colpire anche in luoghi-simbolo e affollati, riflette Nordio, «è particolarmente preoccupante, in quanto indica la crescita, all’interno della resistenza, di gruppi radicali islamici armati, che sembrano impegnati più in una strategia di contrapposizione globale che nella causa dell’indipendenza nazionale».
A tutta evidenza politico ben più che religioso, il delirio di cui sono imbevuti gli attentatori suicidi palestinesi: buttare a mare Israele, come molti arabi sognavano tanto tempo fa. I loro attentati mirano a minare qualsiasi possibilità di “due Stati-per-due-popoli”, a rendere la vita impossibile agli israeliani, a costringerli ad andarsene. Che poi fra le conseguenze ci sia anche il probabile avvio di una guerra civile fra palestinesi è ipotesi che, nei fatti, mostra di non preoccuparli. Varrebbe anche la pena di riflettere sul fatto che nessun attentatore suicida sia comparso durante la prima Intifada, dal 1987 in poi: anni di combattimenti con intensità diversa, ma in cui non venne mai meno la speranza nel futuro.
Eppure, in quel periodo, il suicidio come arma di guerra dilagava sia nel Vicino che nel Medio Oriente. Si era nei tremendi anni Ottanta, quando Khomeini mandava frotte di adolescenti a farsi saltare sulle mine dei campi iracheni, inviava gruppi di combattenti nella piana della Bekaa per addestrare quelli che sarebbero diventati gli Hezbollah, e Israele invadeva il Libano. Combattimenti durissimi; 19mila vittime in tre mesi.
Durante i medesimi anni, nello Sri-Lanka, il suicidio come arma di guerra costellò vistosamente la lotta degli indipendentisti Tamil, in maggioranza di religione indù. «Ma il fattore religioso è indifferente», spiega Michel Gugliemo Torri, docente di Storia moderna e contemporanea dell’Asia alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino. «Il problema è, semmai, l’estremismo nazionalistico dei Tamil. Rispetto all’esercito regolare, molto ben organizzato e armato, lo squilibrio di forze era enorme. La guerra civile si prolungò per oltre un decennio; e se non si può certamente dire che i Tamil l’abbiano vinta, non si può nemmeno dire che l’abbiano perduta». In quell’atmosfera cadde il leader Rajiv Gandhi, dilaniato dall’esplosivo che una giovane donna teneva nascosto tra le vesti. Così gli indipendentisti si vendicarono di colui che, dopo averli per un certo periodo appoggiati, aveva troncato i rapporti mandando, anzi, truppe indiane contro di loro.
E di accensioni nazionalistiche si nutriva il patriottismo disperato dei kamikaze, primi attentatori suicidi della storia (almeno quella moderna). C’è una data molto precisa: 5 ottobre 1944, aerodromo di Clark (Filippine). L’ammiraglio giapponese Masabumi Arima, in divisa da pilota, con le insegne del suo grado strappate, prende i comandi di un bombardiere (vietato a un ufficiale del suo rango), decolla, e poi dirige l’aereo contro la portaerei statunitense Franklin. L’azione fu definita “attacco speciale per percussione corporale”, ma nel mondo se ne diffuse subito un’altra: kamikaze, parola composta dove kami designa Dio così come i giapponesi lo intendono, cioè non un’entità trascendente (qual è nelle nostre religioni), bensì qualcosa di superiore alla dimensione umana; e kazi significa vento, e richiama gli imprevedibili tifoni che nel XIII secolo distrussero, per due volte, la flotta mongola che stava per invadere il Giappone.
In pochi mesi, il numero di richieste per schiantarsi contro obiettivi nemici ammontò al doppio degli aerei disponibili. Sui rotoli di carta di riso custoditi nel tempio Kannonji di Tokyo, si susseguono circa 4.600 nomi. Le selezioni privilegiavano i figli della nobiltà militare, fior fiore della società: per la maggioranza studenti, intorno ai 16-17 anni. Erano di norma scintoisti, religione originaria giapponese, che non esclude, però, la contemporanea adesione ad altre fedi (in Giappone la pluriaffiliazione religiosa è frequente). Glorificandoli, i giornali scrivevano: «Non c’è assolutamente nessuna possibilità di tornare vivi. La vostra missione è la morte. Ma non eccedete, nella fretta di morire. Se non trovate l’obiettivo, tornate indietro; la prossima volta avrete un’occasione favorevole».