Affacciata lungo la sponda settentrionale dell’estuario del Rio della Plata, Montevideo è la capitale della Repubblica Orientale dell’Uruguay: 176.215 chilometri quadrati di verdeggianti e fertili pianure, appena movimentate dalle morbide gibbosità del territorio, che si fa fatica a considerare alture, e che nella lingua locale, lo spagnolo, prendono il nome di cuchillas.
È difficile trovare, nel pianeta, gente più tranquilla dei 3 milioni di abitanti che popolano questo Stato cuscinetto, incuneato tra due giganti del continente sudamericano: il Brasile al nord e l’Argentina ad ovest e a sud-ovest, da cui lo separano il Rio Uruguay e proprio lo sconfinato delta del Rio della Plata, il più ampio del mondo. Un vero e proprio mare di acque limacciose compartito tra i due Paesi, esteso per 30.000 chilometri quadrati e con 220 chilometri di larghezza massima, che si confonde nelle acque scure dell’Oceano Atlantico. La sua smisurata ampiezza sembra fatta apposta per attutire le rivalità culturali e storiche tra Montevideo e la dirimpettaia metropoli di Buenos Aires, capitale argentina. Le rivendicazioni di paternità sbandierate su entrambe le rive dell’estuario, investono quasi ogni simbolo nazionale delle due culture rioplatensi, ciascuna sicura di aver dato i natali a Carlos Gardel, il più grande interprete di sempre del tango cantato; di vantare la carne bovina e ovina più gustosa; di poter reclamare come bevanda nazionale il mate, l’infuso amarognolo di foglie secche di “Ylex Paraguayensis”, un arbusto della selva americana, succhiato attraverso una cannuccia metallica, la bombilla, da una coppa rotondeggiante ricavata tradizionalmente da piccole zucche. Naturalmente non poteva mancare la rivalità calcistica, capace di alimentare gli eterni focolai delle roventi polemiche sportive che neanche tutta l’acqua del Rio della Plata è in grado di spegnere.
La relativa dolcezza del clima subtropicale e temperato della zona in cui sorgerà poi Montevideo, permise che vi si insediassero i Charrua, indios che davano vita a una civiltà del Paleolitico superiore quando fece la propria comparsa nel 1520 il navigatore portoghese Ferdinando Magellano. «Monte vidi» – «Ho visto una montagna» –, commentò il suo compagno Francisco de Albo innanzi alla «montagna fatta come un cappello» sovrastante la costa della futura capitale uruguayana. L’assenza di metalli preziosi, di cui erano alla spasmodica ricerca gli esploratori europei, fece slittare di circa un secolo la colonizzazione della regione. Soltanto tra il 1724 e il 1730 gli spagnoli si decisero a fondare Montevideo, allo scopo di arrestare l’avanzata dell’impero lusitano, giunto 150 chilometri ad ovest, dove aveva eretto Colonia del Sacramento, pittoresco insediamento costiero oggi classificato dall’Unesco Patrimonio Mondiale dell’Umanità.
Nella piazzaforte spagnola ci si svegliava «al colpo del cannone che annunciava il giorno» e ci si ritirava «la notte all’ora delle preghiere». La guerra di indipendenza del 1811 mise fine a quel dominio, a cui però subentrò per un quinquennio l’occupazione portoghese. Soltanto nel 1825 l’Uruguay si liberò dal giogo delle potenze straniere. Montevideo è oggi la capitale di uno Stato democratico, in cui convive un crogiolo di razze e dove la minoranza italiana ha sempre protagonizzato la vita del Paese. A cominciare dal ruolo svolto da Giuseppe Garibaldi durante l’assedio del dittatore argentino Rocas. La casa dell’Eroe dei Due Mondi nella 25 de Mayo è tuttora visitabile se si riesce a spuntarla sugli incerti orari di apertura. L’ondata migratrice di nostri connazionali agli inizi del secolo scorso ha impregnato di italianità cultura, gastronomia, musica del Paese sudamericano e della propria capitale. Si scopre ad esempio con sorpresa di quanto la vera cucina italiana sia maggiormente sopravvissuta su questa che non sulla sponda argentina del Rio della Plata, dove pure è stato accolto un numero ben più elevato di nostri emigrati.
La trentina di comunità italiane a nord del grande fiume conservano generalmente un’immagine della madrepatria cristallizzata e romantica, che resiste allo scorrere del tempo forse per contrapporsi alla definizione di “necropoli dai sogni infranti” data di Montevideo. Non stupisce quindi la presenza di un Museo Romantico in stile Semicoloniale, situato a pochi passi da Plaza de la Constitution, e del Matriz, su cui si affacciano la settecentesca cattedrale, l’Iglesia Matriz, l’edificio più antico di Montevideo, e l’ottocentesco Cabildo, che un tempo ospitava anche le carceri reali e oggi accoglie il Museo e Archivio Storico Municipale. È il cuore della città vecchia, dove sopravvivono scampoli architettonici della cittadella coloniale demolita nel 1833. Vi si accede dalla Porta della Ciudadela, risalente al 1746 ma quasi interamente ricostruita.
Lungo l’asse pedonale rappresentato dalla Calle Sarandi, si fanno altre piacevolissime scoperte. Basta deviare nella piccola Calle Bacacay per fare la prima: Roma Amor, il ristorante delle sorelle romane Donatella e Simona, offre la migliore cucina italiana di Montevideo e probabilmente dell’intera costa sudamericana a nord della Terra del Fuoco, distante oltre 3.000 chilometri. Addentrandosi verso il centro della città vecchia si raggiunge Plaza Zabala, dove campeggia la statua equestre dedicata a Bruno Maurizio de Zabala, fondatore di Montevideo. Fino al 1878 qui sorgeva la Casa del Governo, conosciuta come il Forte, demolita per far posto all’elegante giardino pubblico che immerge in un silente oblio i bei palazzi che la circondano. Si può proseguire senza meta tra gli scorci di questa parte della città che fatica a seguire i ritmi pur lenti dei quartieri più recenti. Prima di abbandonarla vale la pena fare una sosta ai tavolini dello storico Cafe Brasileiro, al 1447 di Calle Ituzaingò. È un unico ambiente che racchiude un mondo tutto in legno, tavolini e sedie comprese, raccontato dalle fotografie, appese alle pareti, dei personaggi della politica, dell’arte, e naturalmente della musica, che l’hanno frequentato dal 1877. Sono immagini che trasudano sogni e malinconia per lo splendore passato di una città oggi in preda, come il resto del Paese, ad una grave crisi economica. A qualche isolato di distanza, i battenti del glorioso Teatro Solis, del 1856, dove si esibirono Caruso, Rostropovich, Toscanini, Eleonora Duse, sono chiusi da anni. Mancano i fondi per il restauro.
Tutt’altra impressione regalano i bar e i ristoranti del Mercado del Puerto. All’ora del pranzo migliaia di avventori varcano le porte in ferro battuto di questa istituzione cittadina al coperto. Bevono un bicchiere di medio y medio, il tradizionale aperitivo di vini bianchi frizzanti, si accomodano sopra le sedie e gli sgabelli delle parilladas, e ordinano ricche grigliate di carne o pesce o grandi sandwiches farciti di palmitos, il bianco e tenero cuore della palma. All’esterno qualche bancarella vende souvenirs ai turisti, libri e vecchi giornali chissà a chi.
Ma la città offre mercati ben più tentatori. Il più celebre si tiene la domenica mattina nella Calle Tristan Narvaja, da cui prende il nome. Furono gli immigrati italiani oltre sessant’anni fa ad avviare la tradizione, che continua con l’offerta di qualsiasi cosa stuzzichi l’interesse dei compratori: dai grammofoni ai volatili. Calle Tristan Narvaja immette nell’Avenida 18 de Julio, che con i suoi due chilometri di lunghezza è l’arteria commerciale per eccellenza della città, riflettendone l’aspetto retrò nelle insegne e nelle vetrine dei commerci che, con i cinema e i teatri che vi si allineano, formano un tutt’uno incompiuto, rimasto troppo indietro rispetto al passo dei tempi. Basta vedere la scarsa qualità delle merci in vendita nei negozi di abbigliamento per capire la crisi in cui si dibatte l’Uruguay. E non bastano il brulicare dei passanti, né i capannelli intorno ai giocatori di scacchi che si sfidano lungo i marciapiedi, o il sorriso di lustrascarpe e venditori ambulanti, per restituire l’immagine spumeggiante che questo stradone ha avuto fino a pochi anni fa. Nonostante i colori dei neon, forma una fotografia in bianco e nero che aiuta a scivolare nel passato. Alla sua estremità meridionale, l’elegante mole neobarocca di Palacio Salvo quando fu eretta, nel 1928, divenne l’edificio più alto d’America: 108 metri. Oggi gli appartamenti dei suoi 27 piani vengono svenduti per pochi dollari.
Per ritrovare la perduta fierezza conviene osservare l’immagine superba della statua equestre del mausoleo al generale Josè Artigas, eroe nazionale e artefice della rivoluzione del 1811, nella sottostante Plaza Indipendencia, cerniera tra la città vecchia e la “moderna”, oppure quella dedicata al gaucho, nel caotico borgo formato dall’intersezione dell’Avenida 18 de Julio con la Calle Barrios Amorìn. Al leggendario mandriano dei grandi spazi di queste latitudini è dedicato anche un interessante museo, ubicato al civico 998 dell’ormai familiare 18 de Julio, non lontano da Plaza Fabini, dove si ammira il monumento all’Entrevero, la scultura più celebre della città, omaggio ai protagonisti omonimi della storia nazionale.
Ben conosciuti sono poi i calciatori che, vincendo i tornei del 1924 e del 1928, resero l’Uruguay bicampione olimpico di football, ottenendo la designazione di Montevideo quale sede del Primo campionato mondiale di questo sport, tenutosi nel 1930. A nord dell’obelisco di granito rosa che domina l’estremità settentrionale della 18 de Julio, i 580 ettari del Parco Battle y Ordonez ospitano, oltre al velodromo e alla pista di atletica, lo Stadio del Centenario, costruito in occasione di quella storica competizione sportiva. Con una capacità di 66.000 posti, è stato dichiarato dalla Fifa “Monumento del Calcio mondiale”, unico complesso del pianeta a vantare una simile classificazione. La sua grandeur continua idealmente nel vicino vialone alberato Boulevard General Artigas che, fiancheggiato da bei palazzi residenziali, si distende fino al lungomare delle Ramblas di Punta Carretas. Sono l’anima pulsante della città, sia in estate, quando i bagnanti ne affollano le spiagge facendola sembrare Rio de Janeiro, sia nel resto dell’anno, in cui animano la scena joggers, pescatori, mamme che spingono passeggini, calciatori della domenica, fidanzati che camminano mano nella mano, paseadore de perros, accompagnatori di cani che ne portano al guinzaglio in completa armonia anche una dozzina di esemplari di specie diverse.
Non si finisce quindi di conoscere Montevideo senza percorrerne le Ramblas, che ne avvolgono l’intera estensione costiera, fino a quella più orientale di Tomas Berreta, nel miliardario quartiere residenziale di Carrasco, che accoglie uno dei tre casinò della città. Chi vuole diventare ricco ha anche l’alternativa di scoprire una delle fortune sepolte nei fondali del Rio della Plata, dove pare siano affondate 150 navi con l’argento, l’oro e i preziosi strappati agli inca prima e alle miniere dei Paesi andini poi.
Procedendo verso ovest ci si imbatte quasi subito nella Playa della Mulata. Deve il nome a una mulatta che accompagnava il proprio uomo a raccogliere dalla battigia le monete depositatevi dal mare. Nel 1992 la leggenda è divenuta realtà con il ritrovamento in tre metri di fondale – ottocento metri a largo di quell’arenile – di un antico tesoro che includeva, oltre ad altri oggetti, 1.600 dobloni d’oro da 8 e 4 scudi, 15 lingotti dello stesso metallo del peso di circa due chilogrammi ciascuno, una moneta d’argento.
Il sogno ad occhi aperti potrà continuare lungo la Rambla Republica de Chile, che separa il quartiere di Malvin Nuevo dalla Playa de Buceo, cioè delle immersioni: quelle necessarie, nel 1752, al recupero delle ricchezze di un naviglio naufragato nell’estuario – mare in cui si perde l’orizzonte. Vi si trovano uno Yacht Club e un porticciolo per natanti da diporto. La Rambla Republica del Perù introduce la Playa de los Pocitos, la più celebre della capitale, su cui si affacciano i palazzoni un po’ decadenti in cui vive l’alta e media borghesia cittadina. Anche qui il nome dell’arenile e del quartiere che cinge raccontano una storia: quella dei pozos, le buche scavate dalle lavandaie lungo la riva del corso d’acqua che giungeva fino alla spiaggia. Chissà in quanti la conoscono, tra i giovani che affollano ristorantini, bar e locali dell’area più notturna di Montevideo... Un altro popolare tratto di costa è quello di Playa Ramirez, in cui ci si imbatte una volta doppiata Punta Carretas, dove la Rambla Presidente Wilson bordeggia il green del Club de Golf de Uruguay.
L’edificio Mercosur, sede amministrativa dell’organizzazione sudamericana – che nella scia del Mercato Comune Europeo tenta l’unione commerciale di Argentina, Uruguay, Paraguay e Brasile – guarda il boschetto del Parque Rodò, uno dei più apprezzati della città, fondato agli inizi del Novecento. Il laghetto artificiale, con tanto di isolotti e cascatelle, navigabile in pedalò, lo fa associare ai parchi europei, a cui si ispirò, con la natura liberata dal rigore della geometria ornamentale che caratterizzava i giardini di epoche precedenti. Come attestano i tanti frequentatori, giovani e anziani, che vanno a goderne la tranquillità, con l’immancabile termos per prepararsi il mate, il tardo pomeriggio è l’ora migliore per passeggiare tra i suoi 85 ettari di verde, ai piedi delle torri del finto castelletto medievale, lungo il Giardino Giapponese e tra le colonne del Padiglione della Musica. È meglio però non farsi sorprendere dall’oscurità, perché la zona diviene insicura, come possono esserlo nelle ore notturne le stradine di semplici casette a due piani dei vicini quartieri Palermo e Barrio Sur, a cui si accede dalla Rambla Republica Argentina.
Barrio Sur è tra i più pittoreschi della città. Imboccando dalla Rambla Sur la Calle Ciudadela e raggiungendo il civico 1.229, si accede allo storico Baar Fun-Fun, aperto dal 1895. Il bancone di stagno è lo stesso in cui nel 1933 Carlos Gardel degustò la Uvita, leggendaria bevanda alcolica creata nel celebre locale, alla quale dedicò un tango e una fotografia con dedica, che riempie le pareti del bar insieme a quelle dei tanti personaggi che lo hanno frequentato. Tra essi Astor Piazzolla, altro genio della malinconica musica rioplatense per eccellenza, che viene tuttora suonata e ballata tra queste mura. Nel Barrio Sur si concentra parte della popolazione afroamericana di Montevideo, e non è raro imbattersi in gruppi di musici che accordano sul fuoco i propri tamburi, prima di inondare le vie circostanti con le note coinvolgenti del candombe, il caratteristico ritmo afro-uruguaiano. Varrebbe la pena assistere anche alle esercitazioni che avvengono quotidianamente in palestre, scantinati e appartamenti del Barrio Sur per compenetrarsi con questa passione nazionale e conoscere lo spirito del popolo che l’ha creata.
Soltanto allora, costeggiata la Baia di Montevideo, lasciandosi alle spalle l’avveniristica Torre delle Telecomunicazioni e raggiunto l’ottocentesco Forte Artigas, che domina lo storico Cerro di Montevideo, ammirando lo splendido panorama della città se ne avvertirà tutto il fascino e si desidererà intensamente farvi ritorno alla prossima occasione.