Guardando giù, mentre l’aereo perde quota per atterrare, si rimane sconcertati dall’assenza di segni di vita: nessun villaggio, nessuna coltivazione, nessuna strada. Nulla. Solo aridi rilievi e qualche macchia gelata. Il paesaggio a cui siamo abituati, dipinto da campi, paesini, laghetti, fiumi, qui è semplicemente uno spazio che si perde a vista d’occhio, apparentemente vuoto, deserto. In parte è così, se pensiamo che in Mongolia, su un territorio grande cinque volte l’Italia, vivono solo due milioni e mezzo di persone.
Nella terra di Gengis Khan non troveremo grandi opere d’arte, né antiche città, nessuna attrazione turistica tranne un assurdo campo da golf per giapponesi stressati in mezzo al deserto. La Mongolia è soprattutto una sorprendente miniera di nuove sensazioni: oltre ad alterare la percezione dello spazio con le sue enormi distanze, riesce a deformare anche la dimensione temporale. I suoi inquietanti panorami preistorici hanno il potere di far riemergere l’ancestrale istinto nomade che ognuno conserva nel suo patrimonio genetico.
Per vivere qui occorre abbandonare i nostri parametri: le percorrenze non si misurano in ore, ma in giorni e settimane. Tutto appare più dilatato, anche se molti mongoli, soprattutto i giovani della capitale, sognano ritmi e stili di vita occidentali. Un sogno finora impossibile, ostacolato da profondi squilibri economicosociali di cui al momento non si vede soluzione.
Come accadde nei Paesi dell’Est europeo con il dissolvimento dell’Unione Sovietica, anche in Mongolia si chiusero da un giorno all’altro i rubinetti delle sostanziose sovvenzioni fornite dai russi per mantenerla nella loro orbita e sottrarla all’influenza cinese. Ma, a differenza dell’Europa, qui non sono apparsi i nostri piccoli e grandi imprenditori avidi di manodopera a basso costo, pronti a inglobare le ex colonie sovietiche nel sistema produttivo occidentale.
Così, mentre negli ultimi due decenni il mondo ha cambiato volto, la Mongolia è rimasta lì, dimenticata, isolata in un limbo quasi inaccessibile, con poco da offrire oltre al ricordo di Gengis Khan, per noi sinonimo di terrore, per i mongoli eroe e orgoglio nazionale. A lui è intitolato il più imponente albergo della capitale; sempre lui fa capolino, un po’ imbronciato, dalla banconota da 1.000 tugrik (0,73 euro, ndr).
Già nei pochi chilometri dall’aeroporto alla città si intuisce il percorso degli ultimi millenni di storia mongola. La periferia è affollata di gher, le tende rotonde di feltro dei pastori nomadi. Gente arrivata qui dalla steppa, calamitata dai traffici della capitale, che continua a vivere nella tipica abitazione degli antenati in attesa di sistemarsi, chissà quando, in una vera casa. Più avanti svetta la ciminiera della pestilenziale centrale a carbone che rifornisce di energia e acqua calda tutta la città, oscurando il leggendario cielo blu. Sulla destra appare l’enigmatico monastero di Bogd-Khan, uno dei pochi rimasti in piedi, simbolo del potere teocratico dei lama buddisti che governarono il Paese fino al 1924. Finché i russi decisero di trasformarlo in una repubblica popolare socialista, radendo al suolo centinaia di luoghi di culto, eliminando migliaia di monaci e perseguitando quelli che rimanevano. Una vera strage, considerando che quasi metà della popolazione era costituita da religiosi. Anche Urga, il mitico nome della capitale, fu cambiato in Ulaan Baatar, “eroe rosso”.
Accanto al monastero inizia un quartiere di casermoni di cemento, simbolo evidente dell’eredità sovietica. Sono gli stessi blocchi di edifici delle periferie di Mosca, di Budapest, dell’Avana. Brutti e degradati quanto si vuole ma, a differenza delle gher, hanno acqua corrente, servizi igienici e riscaldamento ventiquattr’ore su ventiquattro. Quando fuori ci sono 40 gradi sottozero (siamo nella capitale più fredda del mondo, a 1.300 metri di altezza), qualcuno ringrazia ancora i russi. Anche perché i nuovi appartamenti, in edifici modernissimi di vetro che annunciano il centro di Ulaan Baatar, hanno costi proibitivi con quotazioni immobiliari “da centro storico”. Possono permetterseli solo gli stranieri e un pugno di nuovi ricchi, che hanno saputo approfittare della liberalizzazione post-comunista per impiantare traffici commerciali, società di consulenza, agenzie di turismo e di servizi.
Ma è quest’ultimo il volto che vorrebbe darsi la nuova Mongolia. Lo sintetizza un enorme cartellone pubblicitario dedicato agli investitori stranieri, con una futuribile metropoli di grattacieli che avanza ai margini di una verde prateria, fronteggiando un gruppo di minuscole gher all’estremità opposta. Un’immagine che fa pensare alla Via Gluck cantata da Celentano. Per ora però ad aumentare sono soprattutto i grandi recinti di gher ai margini della città: negli ultimi anni la popolazione di Ulaan Baatar è raddoppiata, ormai conta quasi un milione di abitanti, ma la metà vive nelle tende, con un reddito minimo, senza acqua né servizi igienici.
Stranieri se ne vedono pochi. Il gruppo più consistente è costituito da funzionari e tecnici di agenzie e organizzazioni di cooperazione internazionale, che procurano un’entrata fondamentale – quasi la metà – del magro bilancio economico della Mongolia. Vi sono poi i rappresentanti delle multinazionali più importanti, delle case automobilistiche, delle società di import-export. I tedeschi, ad esempio, sono arrivati con 5 milioni di euro per ristrutturare la maggior birreria e distilleria del Paese, privatizzata nel 2001.
I capitali stranieri faticano a trovare la strada della Mongolia, una delle nazioni a cui è riservata la maglia nera nella graduatoria del “rischio investimenti”. La ricetta per lo “sviluppo” preparata dai grandi organismi economici mondiali, con pesanti tagli allo Stato sociale, è molto dolorosa. Le conseguenze sono già visibili: mentre le prospettive di crescita sono rimaste molto basse, la qualità della sanità e dell’educazione è drammaticamente precipitata. Nel 1989 era analfabeta l’1,5% dei ragazzi, oggi la percentuale è salita al 5%. Anche la mortalità infantile è molto alta: 52 morti ogni mille nascite (da noi il tasso è del 5 per mille).
Gli scambi più intensi – nonostante la rivalità storica – avvengono con la Cina, a un giorno di treno dalla capitale. Mentre a livello politico proseguono le schermaglie, i mercati e negozi di Ulaan Baatar continuano ad essere invasi da ogni sorta di oggetti “made in China”: vestiti, casalinghi, ferramenta, giocattoli… più o meno le stesse cose che arrivano qui da noi. I giovani apprezzano molto la birra e la musica leggera cinese: ovunque si vendono nastri di gruppi rock, mentre nei mercati sono allineati i poster di giovanissime cantanti con improbabili nomi d’arte, come Gigi o Elva. Anche la musica italiana è conosciuta e apprezzata, grazie soprattutto a Pupo, unico cantante italiano che non dimentica mai di far tappa in Mongolia durante i suoi tour, a Toto Cutugno, ai Ricchi e Poveri, ad Albano, all’intramontabile Celentano.
Gli italiani che vivono stabilmente in Mongolia si contano invece sulle dita di una mano. Forse perché non c’è molto da fare: non c’è neanche l’Ambasciata, neppure un console. I nostri connazionali più conosciuti, nel bene e nel male, sono la milanese Paola Frattola, una graziosa insegnante di italiano all’Università di Ulaan Baatar, e il romano Francesco Bernardini, proprietario di night-club, rifugiatosi qui per sfuggire a un burrascoso passato ai margini della legalità. Nel suo locale, il ritrovo più esclusivo della città, si incontrano le due anime del Paese: da una parte i neoricchi in Mercedes, capaci di spendere 500 dollari in una sera, l’equivalente del reddito medio annuo di un mongolo, dall’altra le ragazze che si esibiscono, figlie di quella Mongolia che difficilmente potrà arrivare a godere delle delizie del modello occidentale. Per ora il baratro rimane profondo: un mongolo su tre vive sotto la soglia di povertà, uno su quattro in condizioni di estrema povertà con un reddito di 40 centesimi di euro al giorno.
Il problema è serio, anche perché la mancanza di una classe media che faccia da ammortizzatore sta alimentando tensioni sociali preoccupanti tra le fasce più indigenti della popolazione urbana. Aumenta il numero dei giovani che, frustrati nella ricerca di una impossibile realizzazione personale, si rifugiano nell’alcool, moltiplicando gli episodi di microcriminalità. Un indice significativo è il numero di “bambini di strada” nella capitale: vivono nelle viscere della città, accanto alle enormi tubature che convogliano l’acqua calda nelle case, unico luogo dove possono sopravvivere al rigidissimo inverno. Si calcola siano circa 10mila, scappati da condizioni di violenza e abbandono, od orfani di famiglie disgregate. I dati della Fao descrivono una situazione angosciante: più della metà dei bimbi mongoli vivrebbe di stenti.
Una realtà drammatica, che svanisce lasciando la capitale. Appena fuori città le strade finiscono, perdendosi nell’infinita pietraia che annuncia il deserto più grande del mondo: il Gobi. Solo chi ha nel sangue questa terra, come il nostro autista Adja, sa dove puntare per giungere, dopo centinaia di chilometri, esattamente là dov’è piantata la piccola gher che cercava. Mentre viaggiamo, accompagnato dai canti di Adja, ci appare lo stesso paesaggio che descrisse Marco Polo settecento anni fa. Ai mongoli piace cantare, forse per farsi compagnia nelle lunghe ore di viaggio, con nenie e gorgheggi gioiosi che parlano di natura, amore, famiglia.
Muovendoci verso sud a bordo di un vecchio fuoristrada russo, in tutta la mattinata incrociamo solo un camion, una moto e un pastore col suo cammello. Nessun segno di vita a parte qualche raro accampamento – a distanze che a noi paiono enormi, nell’ordine delle decine di chilometri – con famiglie dedite all’allevamento delle preziose capre cachemire, a cui dobbiamo la lana più rinomata del mondo. Solo qui, in queste steppe spazzate dal vento gelido, le capre sviluppano quel sottopelo soffice, fine, caldissimo, che una volta l’anno, in primavera, viene tosato con un pettine di ferro e venduto ai commercianti. Così vivono la metà dei mongoli, in continuo movimento, sfidando uno dei climi più proibitivi del pianeta, sopportando 45 gradi in estate e 50 sottozero d’inverno.
La scelta di passare la vita a spasso nel deserto con un centinaio di pecore, invece di rischiare la disoccupazione e gli stipendi da fame della capitale, in Mongolia è ancora consentita grazie all’immensa estensione di un territorio in gran parte spopolato. E bussare alla porta di una gher di pastori in mezzo al Gobi, oltre ad essere l’unica possibilità per dormire, è il modo giusto per capire come si viveva ai tempi di Gengis Khan.
La tenda è sempre la stessa: uno scheletro di rami di salice e una “blindatura” contro il freddo costituita da strati di feltro sovrapposti sulle pareti e sul terreno. Con un diametro di circa sei metri, alta tre, la gher ha al centro un focolare quadrato che fa da stufa e fornello per cucinare, alimentato con argal, sterco secco, l’unico combustibile reperibile nel deserto. Mentre fuori imperversa una tempesta di neve, nonostante la primavera sia alle porte, dentro si può stare tranquillamente in maniche corte. Il resto dell’arredamento è essenziale: un vivace cassettone color arancio decorato, per i ricordi di famiglia, due letti, un tavolino, un paio di sgabelli, un minuscolo lavabo con catino e brocca.
La sola nota stonata in questo tuffo nel Medioevo è la piccola televisione in bianco e nero, che assieme alla motocicletta va rapidamente diffondendosi tra i nomadi. Alimentata con batterie ricaricate da pannelli solari, riceve l’unico canale nazionale attraverso un’enorme parabola. Ma per i mongoli il principale passatempo rimane ancora la conversazione, unico mezzo d’informazione fino a oggi.
La famiglia che ci accoglie è composta da mamma, papà e un ragazzo quindicenne. Nonostante l’impossibilità di comunicare, ci viene tributata una garbata accoglienza, con la naturale timidezza di chi non è abituato a ricevere visite così insolite. La cortesia e l’ospitalità si manifestano nel farci accomodare al “posto d’onore” della gher e nel concederci i pezzi migliori del loro pasto, a base di carne in brodo accompagnata da “linguine” di farina e acqua. Quel che avanza sarà la nostra colazione del mattino. Ci viene concesso anche l’onore del primo sorso di airag, il latte di giumenta fermentato, dal gusto selvaggio e leggermente alcolico, da sempre la bevanda dei cavalieri della steppa.
Prima di coricarci, ricambiamo la gentilezza ritraendo genitori e figlio con la nostra Polaroid: la foto entra subito a far parte dell’album di famiglia, accanto all’immagine ingiallita del bisnonno a cavallo. La batteria del televisore, che alimenta anche una piccola lampadina, è ormai scarica. La tempesta si è calmata e gli agnellini appena nati che zampettano vicino alla stufa hanno smesso di belare. Il vento sta spazzando il cielo, dal foro sul soffitto della gher si intravede lo scintillio della lunga sciarpa di seta blu, simbolo sacro del cielo e della prosperità, che riflette il chiarore della luna.