Così falso... che sembra vero

È nato a Salerno il Museo del Falso. Voluto dall’omonimo Centro Studi dell’Università cittadina, che opera con il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale

Immagine del Convegno La Musa inquinante, falsi artistici ed archeologici organizzato nel Museo del Falso Sì, avete capito benissimo, è nato il “Museo del Falso”. È comprensibile lo stupore di tutti di fronte all’idea che il falso pervenga all’onore di museo, ma proprio in questi nostri giorni in cui la contraffazione, oltre l’arte e l’archeologia, da sempre i settori più colpiti, ne investe molti altri (si tratta di farmaci, argenti, moda, beni alimentari, riproduzione di cassette musicali e Cd, apparecchiature elettriche, sanitarie e così via), l’esigenza di creare una struttura in grado di studiare, capire, seguire l’evoluzione del falso in ogni suo aspetto si è fatta urgenza. Senza dimenticare che oggi all’interno di tale struttura si possono concentrare strumenti ed apparecchiature per l’indagine di una precisione così sofisticata da suggerire di utilizzarli, al contrario, per l’accertamento della autenticità di qualunque opera o prodotto venga esaminato.

Circa quindici anni fa la prima ipotesi di raccogliere e conservare i falsi artistici ed archeologici in un’unica sede presso l’Università di Salerno, a scopo di studio, venne formulata dai promotori del Centro Studi sul Falso e il 10 novembre 2003 è stata sottoscritta la convenzione tra quest’ultimo, il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale e l’Università di Salerno. C’è da notare che questa struttura si costituisce ufficialmente “prima” in Europa e nel mondo, dopo diversi tentativi compiuti addirittura già agli inizi e poi durante il secolo scorso in Francia, in Inghilterra e negli Usa, mai approdati a concreta risoluzione. E in simbiosi con un reparto altamente specializzato come il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale opererà certamente sotto i migliori auspici.

La storia e la pratica della falsificazione sono antichissime, tanto da meritare una narrazione dalle prime notizie che se ne hanno al nostro tempo, seguendo la rigorosa e appassionante relazione che il professor Salvatore Casillo, Direttore del Centro Studi sul Falso, ha tenuto in occasione della giornata di studio seguita alla firma della costituzione del Museo del Falso, denominata “Pseudotecnia, la Musa inquinante”, aggirando il famoso titolo di un quadro metafisico di Giorgio De Chirico, La Musa inquietante.

Innanzitutto, allora, cosa si intende per falsificazione? «Un’azione», spiega il professor Casillo, «mediante la quale ad un manufatto viene conferita un’identità che ad esso non appartiene e che invece è propria di un altro manufatto, con l’intento, da parte di chi pone in essere tale azione, di ottenere un beneficio (diretto o indiretto), prevalentemente di tipo economico, a danno di altri soggetti». Ed ecco tratteggiata da subito la connotazione del falsario, di colui che, con inganno, vende ad un acquirente l’imitazione di un’opera di un artista riconosciuto spacciandola per autentica.

Le prime descrizioni dei tanti trucchi con i quali i falsari riuscivano a gabbare l’ingenuità dei compratori risalgono a Plinio il Vecchio e a Fedro. Quest’ultimo, proprio a proposito dei falsi d’arte, denunciò che alcuni artisti suoi contemporanei ottenevano guadagni più alti per le loro opere se sul marmo scolpivano il nome di Prassitele e sull’argento cesellato quello di Mirone. Allora come oggi esistevano danarosi collezionisti che amavano raccogliere nelle loro case pezzi unici di grandi artisti e la richiesta era certamente più alta dell’offerta, tanto da favorire la fabbricazione continua di imitazioni in sculture, argenti, pitture da parte di abilissimi artigiani.

Se questa era la situazione durante l’Impero romano, nel Medio Evo, cambiati radicalmente la mentalità e il costume della popolazione, furono soprattutto le pietre preziose e le reliquie dei santi ad essere collezionate: le prime come ostentazione di ricchezza, le seconde oggetto inizialmente di devozione, ma anche, poi, finalizzate all’acquisizione di indulgenze. E qui i falsari si prodigarono ad accontentare la massa con la diffusione di un diluvio di schegge della Vera Croce, capelli o veli della Madonna, frammenti della greppia di Betlemme, chiodi della Croce, reliquie di santi e martiri, limature di catene e della graticola di San Lorenzo.

Imitazione de Gli argonauti, olio su tela, una delle opere più apprezzate di Giorgio Emerse verso la metà del IX secolo la figura del maggior falsario di reliquie, il diacono Deusdona, appartenente al titolo di San Pietro in Vinculis, il quale a più riprese portò egli stesso, o inviò, in Germania numerosi corpi prelevati dal cimitero e fatti passare per rinomati martiri romani. «All’epoca della Riforma», scrive il professor Casillo, «mentre da un lato Federico di Sassonia contava nella sua collezione 5.005 pezzi per un corrispondente di 127.799 anni di indulgenza e l’arcivescovo elettore Alberto di Brandeburgo possedeva 8.933 reliquie con un corredo di vari milioni di anni di indulgenza, dall’altro lato Calvino poteva affermare che, al suo tempo, tante erano le reliquie della Vera Croce che trecento uomini non sarebbero riusciti a trasportarla!».

Il mecenatismo e l’ammirazione per l’antichità classica nel periodo Rinascimentale tornarono a diffondere l’interesse per le sculture e i dipinti greci e romani, e con esso si sviluppò presto la produzione dei falsi, con inequivocabile confusione tra “falsi” e “imitazioni”, allora considerate in certo qual modo legittime. Tra il 1440 e il 1470 a Napoli il pittore Colantuono fece parlare di sé come pregevole imitatore dei maestri fiamminghi e dei disegni di Albrecht Dürer, senza scopo di lucro, mentre più tardi il Vasari citò ad esempio di perfette imitazioni le innumerevoli teste greco-romane uscite dalla bottega di Tommaso della Porta.

Nella seconda metà del Cinquecento l’emergere di una borghesia attiva e ricca moltiplicò la richiesta di beni artistici. Non più solo le nobili famiglie e i principi della Chiesa, ma anche mercanti e banchieri aspiravano ora a collezionare oggetti preziosi, sculture, dipinti di grandi artisti, tanto che sul mercato apparve una nuova figura: il mercante di opere d’arte. Roma, Firenze, Venezia, Parigi, Londra, Basilea, Norimberga si delinearono come i maggiori centri di commercio.

La differenza tra falsificatori e imitatori rimase però sempre dubbia: ci furono artisti come Pietro Muttoni, detto Vecchia, che nel Seicento creò false tele del secolo precedente per «meravigliare» (a suo dire) i contemporanei, o come Annibale Carracci, che si prese gioco di un suo «altezzoso protettore» con un dipinto da lui eseguito alla maniera di fra’ Sebastiano del Piombo, o di un allievo dello Spagnoletto, Luca Giordano, che riuscì a vendere ad un collezionista, che non apprezzava la sua pittura, suoi falsi di Tiziano e Tintoretto, e ne mortificò la competenza artistica esibendogli poi il suo nome sui telai. Vuoi per meravigliare, insomma, vuoi per personale vendetta o sberleffo, ma vuoi anche per guadagno, l’eclettismo degli artisti si cimentò a lungo con falsi e imitazioni.

Quando, nel 1709, gli archeologi iniziarono gli scavi di Ercolano, e successivamente, nel 1748, quelli di Pompei, la domanda di reperti artistici, statue, terrecotte, medaglie, bronzi, monete, gioielli, dipinti murali, oggetti di uso quotidiano, raggiunse l’apice, divenne febbre: ai saccheggiatori clandestini degli scavi, che davvero riuscivano a volte a trovare oggetti di pregio, si affiancò una moltitudine di falsari capaci di soddisfare a suon di prezzi esorbitanti ogni genere di richiesta di collezionisti italiani e stranieri.

Il pittore Giuseppe Guerra, allievo del Solimena, fu attivissimo nel creare false pitture antiche, che riuscì a vendere facilmente anche all’estero, in Germania, in Francia, e perfino a famosi musei, come il British di Londra. Fu arrestato dall’inviato del re di Napoli Ferdinando I di Borbone con l’accusa di aver rubato opere appartenenti agli scavi di Ercolano: a sua estrema difesa, in carcere, il Guerra riprodusse due dei dipinti contestati, per dimostrare che quanto vendeva era «realmente falso».

Prosegue il professor Casillo: «Se nell’Ottocento (...) l’incetta di opere d’arte italiane, effettuata da compratori inglesi, tedeschi e statunitensi, per i quali possederne costituiva un simbolo di prestigio, dilatò l’arco della domanda – che spaziò dai reperti archeologici etruschi e romani ai dipinti dei primitivi italiani, dalle opere rinascimentali sino a quelle dei paesaggisti settecenteschi e contemporanei –, l’offerta dei falsari seppe adeguarsi ad ogni genere di richiesta». L’Italia è stata sempre un’inesauribile miniera di opere preziose e di cultura e gli stranieri in visita non resistevano alla tentazione di rientrare in patria con un souvenir antico reputato autentico: le “patacche” dei falsari raggirarono così a migliaia i forestieri.

Ma ci furono anche veri e propri artisti, come i fratelli Alessandro e Augusto Castellani, che riuscirono a falsificare gioielli etruschi e romani in oro e argento riproducendo addirittura la difficilissima e famosa tecnica della granulazione in oro. O abilissimi scalpellini, come Pietro ed Enrico Pinelli, che vendettero al British Museum una loro splendida opera, Il Sarcofago di Cerveteri, a loro dire datata al 500 a.C. e trovata nella necropoli di Cerveteri, che a lungo ebbe l’onore di una prestigiosa collocazione nelle sale del Museo, e una volta accertatane la non autenticità finì spregiata in cantina.

Storie curiose di falsi, ma anche storie di una continua depauperazione del nostro patrimonio artistico, per quanto davvero inesauribile: moltissime opere d’arte trovarono canali adatti per essere vendute all’estero, mercanti senza scrupoli e collezionisti avidi favorirono il loro esodo, fino a quando una prima legge, varata nel 1902, vietò l’esportazione di opere di grande pregio, disciplinando il flusso di quelle minori. Ad essa gli antiquari fiorentini risposero con una risentita petizione, nella quale si assicurava che gli oggetti che vendevano erano stati scovati dopo anni o secoli, pieni di polvere e tarli, incrostati, mezzo distrutti ed erano stati restaurati con infinita pazienza da tanti artigiani esperti nell’arte della ricostruzione presenti a Firenze, che da questo lavoro traevano il loro guadagno. Come dire che la legge era iniqua perché toglieva loro il pane di bocca.

E siamo al Novecento. Dice il professor Casillo: «Fu il secolo nel quale l’opera d’arte, oltre che oggetto di collezione e simbolo di prestigio, divenne un bene in cui investire e/o sul quale speculare; fu anche il secolo in cui si susseguirono le messe a punto di una serie di tecniche scientifiche e di forme di analisi (chimiche, spettrografiche, radiografiche, microscopiche) finalizzate a ridurre il rischio di cadere negli inganni dei falsari». Il Novecento si caratterizzò, inoltre, per le numerose scoperte e rivelazioni di falsi e falsari che scossero il mercato artistico.

Ad esempio illuminante, dopo la Prima guerra mondiale apparvero a Parigi, provenienti dall’Italia, bellissime sculture antiche di stili ed epoche differenti in marmo, terrecotte e statue lignee del Rinascimento, che in breve conquistarono il mercato e raggiunsero cifre a sei zeri, per allora iperboliche. Queste splendide opere erano opera di un falsario modesto e assai dotato, Alceo Dossena, che lavorava in una bottega vicina a Castel Sant’Angelo, a Roma.

Avvenne però che la moglie di Dossena contrasse una lunga malattia, per curare la quale il buon uomo spese invano tutto il suo avere. Chiesto un aiuto economico per il funerale ai due esosi mercanti che si erano arricchiti con i suoi lavori, e ricevutone diniego, il Dossena si rivolse ad un noto avvocato, spifferò quanto accaduto e, portando come prove inconfutabili disegni e fotografie, denunciò la catena dei falsi, che erano approdati addirittura a musei famosi, come il City Museum di Saint Louis.

La sua confessione suscitò ovviamente uno scandalo enorme e duraturo, che nemmeno la sua morte, avvenuta nel 1937 nella più totale miseria, riuscì ad estinguere. Ma per smascherare la Diana con cerbiatto, acquistata per 56.000 dollari (allora!) dal City Museum come fosse stata ritrovata alla fine dell’Ottocento a Civita Castellana, il figlio di Dossena dovette pubblicare un libro nel quale l’opera figurava in una fotografia del laboratorio del padre.

Il Novecento avrebbe registrato altri scandali rumorosi nel secondo dopoguerra, a cominciare dalla storia delle 56 opere di Arturo Martini, la cui autenticità fu messa in discussione dal gallerista milanese Ettore Gian Ferrari. Oppure, per giungere rapidamente ai giorni nostri, il clamoroso caso delle quattro teste attribuite a Modigliani, rinvenute dragando il Fosso Reale di Livorno, nel quale si diceva che l’artista le avesse gettate. Per qualche mese esperti autorevolissimi le ritennero autentiche: fin quando, in una diretta tv, i tre spiritosi ragazzi livornesi che avevano ordito l’inganno si dissero e si dimostrarono autori delle opere.

L’elenco delle disavventure degli esperti in buona parte d’Europa e nel mondo è assai nutrito, fra autodenunce di artisti, denunce di contraffazioni, condanne di falsari e processi famosi, che non di rado furono veri e propri terremoti in campo artistico. Uno degli ultimi casi riguarda Eric Hebborn, un falsario inglese che, dopo trent’anni di “onorata carriera” all’ombra dell’arte, decise di venire allo scoperto con un libro autobiografico, dichiarandosi autore di un migliaio fra dipinti, bronzi, disegni antichi, figuranti come opere di grandi artisti nei più famosi musei del mondo o nelle raccolte private più conosciute: un’attività degna di un grande maestro, se riuscì a falsificare e a spacciare come autentici quadri di Mantegna, Bruegel, Rubens, Watteau, Corot, Piranesi, Tiepolo. Gli stessi mercanti che piazzavano le sue opere e gli commissionavano nuovi lavori, gli procuravano le tele antiche e la vecchia carta da ridisegnare: e gli esperti cadevano nel suo tranello. Hebborn fu trovato morto il 10 gennaio 1996 in una stradina di accesso a Piazza Navona, a Roma, in circostanze rimaste nebulose.

A questo punto si impone una riflessione: chi è un falsario, quale il suo identikit? Un artista mancato, che vuole prendersi una rivincita nei confronti di chi è più fortunato, danaroso e potente di lui, e che, dotato di abilità tecnica e conoscenza dell’arte, cela nell’ombra la sua illecita attività? «Il vero falsario», dice il professor Casillo, «ha per obiettivo l’acquisizione di un beneficio economico, per ottenere il quale non si cura di scegliere vittime più o meno immeritevolmente ricche, né soprattutto si cura delle conseguenze che il suo inganno può arrecare a tali vittime. Come quando, ad esempio, falsifica farmaci, alimenti, apparecchiature elettriche o pezzi di ricambio, che possono mettere a rischio l’incolumità e la vita di quanti li acquistano e li usano. I falsari d’arte non raggiungono questi livelli di cinica spregiudicatezza, ma il loro obiettivo – checché dichiarino una volta smascherati o autosmascheratisi – è un profitto ottenuto con l’inganno, e le loro vittime non sono solo i componenti del ristretto ambito di quanti, abbienti o, più che abbienti, collezionisti, investitori, musei pubblici o privati, acquistano le loro falsificazioni inconsapevolmente, ma la collettività nel suo complesso, dal momento che i falsi modificano, deformano, inquinano le storie personali, i percorsi di ricerca e di espressione degli artisti di cui assumono indebitamente la paternità», modificando al tempo stesso le tracce indispensabili a illuminare le civiltà che ci hanno preceduto, e impedendone la loro piena conoscenza.

Un danno enorme, quindi, per la nostra cultura. C’è da osservare ancora che il falsario che riesce a produrre la copia perfetta di un’opera d’arte è ben diverso da quello che “crea” senza modello un’opera d’arte o un reperto archeologico, capacità però che pochissimi hanno mostrato e mostrano di possedere.

Un critico e studioso dei fenomeni dell’arte come Max Jacob Friedlander ha affermato che le falsificazioni «devono essere servite calde, così come escono dal forno», nel senso che hanno il potere di essere accolte al loro apparire, ma alla lunga non possono che evidenziare i legami culturali e il gusto del tempo che le ha generate, finendo con l’essere smascherate. L’arte contemporanea, si sa, è oggetto di contraffazioni cui i falsari si dedicano accanitamente per la facilità dei mezzi e delle tecniche adoperate da artisti e maestri di oggi, ma proprio la stessa facilità di composizioni si palesa e denuncia prima o poi la presenza del falso ad un’analisi attenta. La teoria del Friedlander, perciò, si conferma valida; ma il professor Casillo esprime forti perplessità sul suo valore assoluto, perché «è estremamente difficile che tutte le opere d’arte ed i reperti archeologici che affollano come pezzi autentici le collezioni private siano genuini, così come le inappuntabili perizie effettuate su di essi hanno attestato».

È legittimo chiedersi, allora, se i falsi realizzati da “artisti devianti” o falsari di genio come Alceo Dossena o Eric Hebborn sono stati tutti individuati o sono ancora ammirati come autentici capolavori nelle più sontuose sale di splendidi musei?