Guerrazzi e Cantù, la passione della libertà
Nomi di Francesco Domenico Guerrazzi e di Cesare Cantù non dicono molto alle generazioni d’oggi. Eppure entrambi appartengono, a giusto titolo, a quella schiera di uomini che, per dirla con Spadolini, “fecero l’Italia”. Il nostro Risorgimento è un periodo storico estremamente complesso, perché al suo interno si dispongono ideologie e personaggi assai diversi, e anzi spesso in lotta fra loro. Ma quale che fosse il partito di appartenenza, tutti o quasi agirono animati da una grande passione, quella della libertà, e accettarono di portare sulle loro spalle un fardello spesso insostenibile.
Guerrazzi, ad esempio, nato a Livorno nel 1804 e quindi suddito del Granducato di Toscana, in ragione delle sue idee politiche, fu dapprima costretto a un soggiorno forzato a Montepulciano, poi, nel 1833, fu incarcerato a Portoferraio. Durante le rivolte del 1848-49 rivestì un ruolo di primo piano e, dopo la fuga del granduca Leopoldo II da Firenze, diede vita a un triunvirato con Giuseppe Montanelli e con Mazzini. Ma il suo sogno repubblicano durò lo spazio del mattino. Sedate le rivolte, tutti i vecchi sovrani tornarono sui loro troni. Così, dopo il ritorno del granduca, Guerrazzi fu condannato a quindici anni di prigionia, commutati poi nell’esilio in Corsica. Fuggito dall’isola, trovò riparo a Genova. Dopo il 1860 fu eletto deputato, e per un decennio militò nelle file dell’opposizione democratica. Morì a Cecina nel 1873. Guerrazzi ci ha lasciato un esempio di grande dedizione alla sua piccola patria, la Toscana, e alla nuova, cioè l’Italia, e soprattutto alle idee di libertà e di giustizia. Al di là della sua militanza politica, egli fu scrittore, e di lui ci restano diverse opere, degne ancor oggi di attenzione: i suoi romanzi storici, innanzi tutto, La battaglia di Benevento, L’assedio di Firenze, Veronica Cybo, le sue Note autobiografiche, e un ricco epistolario, che è fonte non secondaria della nostra storia risorgimentale.
Cesare Cantù, coetaneo di Guerrazzi, ma liberale moderato, dapprima esponente del neoguelfismo, poi schierato su posizioni clericali, era nato nella provincia di Como e quindi era suddito del Lombardo-Veneto. Anche lui conobbe assai presto l’esperienza del carcere per essersi schierato tra i letterati ostili all’Austria. Scontata la pena, come punizione ulteriore fu allontanato dall’insegnamento. Si trasferì in Piemonte, il paese da cui una generazione di esuli italiani lavorò alla costruzione della nuova Italia. Nel 1848 tornò a Milano per partecipare alle gloriose Cinque giornate. Dopo il 1860 fu eletto deputato. Ma la sua attività principale fu sempre quella di letterato e di scrittore. Ci ha lasciato un romanzo storico, Margherita Pusterla, una raccolta di racconti, Novelle brianzole, una serie di saggi storici e letterari e, soprattutto, la Storia universale, in 52 volumi.
Morì a Milano nel 1895.