Vincenzo Monti, poeta misconosciuto

Come numerosi altri “minori” dell’Ottocento, fu messo nell’angolo per ragioni politico-ideologiche e lì è rimasto soprattutto per la pigrizia intellettuale degli studiosi e dei critici. Ma in occasione dei 250 anni dalla sua nascita è giusto ricordarne l’opera, e l’indiscutibile valore di maestro

Una fitta cortina di silenzio è scesa ormai su Vincenzo Monti, il poeta italiano più ammirato, più celebrato, più conosciuto negli anni a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento. La sua vasta e multiforme opera poetica è oggi difficilmente reperibile, a parte la stupenda, e per certi versi insuperata, traduzione dell’Iliade di Omero. Anzi, il lettore comune ignora quasi del tutto l’esistenza di Monti, e anche in sede universitaria gli studi sono radi e scarsamente innovativi.

Un destino che questo poeta condivide con molti altri autori cosiddetti “minori” dell’Ottocento italiano – si pensi, per esempio, all’oblio in cui sono cadute opere pur importanti come Le mie prigioni di Silvio Pellico, Le ricordanze di Luigi Settembrini, I miei ricordi di Massimo d’Azeglio, le Poesie di Giuseppe Giusti, le Noterelle di Giuseppe Cesare Abba, il Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi, Vortice di Alfredo Oriani, e così via –, messi in un angolo per il sopraggiungere di motivazioni politico-ideologiche di segno diverso e non più ripensati per pigrizia intellettuale o per perseguire un perverso primato dell’attualità.

La cronologia, fortunatamente, ci aiuta a ripescarli, e a ragionar di loro: dopo Pellico, che abbiamo ricordato in occasione del 150° anniversario della scomparsa, ecco ora Monti, di cui ricorre il 250° anniversario della nascita e, ad abundantiam, Francesco Domenico Guerrazzi, interprete dell’anima democratica e repubblicana del Risorgimento, ma anche autore di romanzi storici, fra cui la celebre Battaglia di Benevento, e Cesare Cantù, patriota, erudito, autore di una Storia universale in 52 volumi, entrambi nati nel 1804: duecento anni fa.

Torniamo dunque a Monti, e ricordiamo subito che, per quanto possa dirsi oggi inattuale, per quanto «poeta dell’orecchio e dell’immaginazione», come notò Leopardi, per quanto troppo dipendente dai classici greci e latini e quindi, in ultima analisi, poco originale, egli fu tuttavia maestro di lingua e di stile, capace di influenzare, se non di orientare, i più grandi poeti italiani dell’età moderna, e cioè Foscolo, Manzoni e Leopardi, e di dare l’impronta allo stile poetico di tutto l’Ottocento. Non a caso Manzoni gli attribuì «il cor di Dante, e del suo duca il canto», e Carducci lo disse maestro «di una intera ingegnosissima generazione».

Era nato, Monti, il 19 febbraio 1754 ad Alfonsine, presso Fusignano, in provincia di Ravenna. Dopo aver compiuto i primi studi nel seminario di Faenza, e dopo aver abbandonato l’idea di farsi prete, si era trasferito a Ferrara per dedicarsi alla medicina. Ma ben presto la poesia aveva spazzato via tutti gli altri suoi interessi. Dopo una breve militanza nell’Arcadia, con il nome di Autonide Saturniano, aveva composto delle belle poesie celebrative che gli erano valse il favore del cardinale Scipione Borghese, legato pontificio di Ferrara, e la chiamata a Roma, nel 1778.

Nella città dei papi conquistò subito un successo che si può definire travolgente: egli era giovane, di bell’aspetto, di carattere gioviale (anche se facile alla collera), verseggiatore inarrivabile, gran conoscitore dei classici e brillante conversatore, «sovrumano recitatore» (sono parole di Foscolo) di poesie – al tempo d’oggi Monti sarebbe divenuto un celebratissimo attore. Si procurò, dunque, la protezione di monsignor Ferdinando Spinelli, governatore della città, e soprattutto quella del papa, Pio VI (al secolo Giovanni Angelo Braschi), e quindi un impiego: nel 1781 divenne, infatti, il segretario del nipote del papa, Luigi Braschi.

Il periodo romano fu tra i più felici della vita di Monti. La città eterna, tagliata fuori dal gran dibattito filosofico, politico e letterario che percorreva le varie contrade d’Europa – si era alla vigilia della Rivoluzione francese, ma a Roma non se ne aveva contezza –, sembrava fatta su misura per il suo animo. Per lui non contava tanto la vita quanto la parola: i fatti, ha scritto un critico autorevole, Guido Bezzola, «costituivano solo un’impalcatura poco gradevole e dopo tutto non indispensabile». Il poeta non aveva il compito di cambiare il mondo e di renderlo migliore, ma di celebrarne la bellezza; egli si sentiva «chiamato ad abbellire con l’arte le forme della natura, che di per se stesse sono rozze o spiacevoli o imperfette; che altri temi, che altre possibilità si aprissero al verso, non poté capire».

Anche per questo non si preoccupò mai troppo della natura del potere, e celebrò con i suoi canti tutti i potenti, allo stesso modo, sia che fossero papi, rivoluzionari o imperatori. A Roma il poeta conobbe pure l’amore, o meglio diverse specie d’amore: quello non corrisposto (ma non disperato) per Carlotta Stewart, quello più saporito e inconfessabile per Costanza Falconieri (la moglie del suo benefattore), quello tenero e premuroso per la bellissima Teresa Pikler, che sposerà nel 1791 e gli darà due figli, Francesco, morto prematuramente, e Costanza, che sarà sempre al centro delle sue attenzioni. A Roma, infine, egli compose opere di una certa importanza, come La prosopopea di Pericle, La bellezza dell’universo, ma soprattutto la Bassvilliana e Musogonia.

La Bassvilliana traeva ispirazione dalla tragica fine di Nicola Giuseppe Hugou, detto Bassville, un repubblicano francese venuto a Roma per propagarvi le nuove idee e quivi caduto nel corso di un tumulto popolare, nel gennaio del 1793. Lo spunto cronachistico consentiva a Monti di mettere sotto accusa la Grande rivoluzione, sfociata nel Terrore, e di tessere uno sfrontato elogio dei «bei tempi andati». Le idee erano vecchie, ma i versi, che riprendevano i modi danteschi, arricchiti da Virgilio, dall’Ariosto, dal Petrarca, in breve da una civiltà letteraria di molti secoli, da Monti padroneggiata magnificamente, erano splendidi, fluenti e sonanti, traboccanti d’immagini affascinanti, di metafore arditissime, d’invettive folgoranti. Si disse allora, e il giudizio rimane valido, che fu il migliore elogio di un passato indifendibile che tutta Europa aveva ripudiato o stava ripudiando. Il successo di quei versi naturalmente fu enorme un po’ da per tutto e in modo particolare a Roma, dove il tempo si era fermato e quasi nessuno aveva capito quale fosse la portata di quella rivoluzione.

Monti era considerato ormai un grande poeta, era amato e riverito, ma qualcosa non andava per il giusto verso. Lui che era così olimpico e solare, lui che non conosceva i tormenti dell’anima, cominciò ad avvertire una qualche insofferenza nei confronti della corte romana, così ipocrita, così miope, così ostinatamente chiusa a qualsiasi idea di progresso. Cominciò a temere di aver sbagliato partito. Pensò allora di poter passare nel campo opposto e di poter diventare rivoluzionario, come dissero i critici, «non già cambiando l’animo, con un definitivo mutamento in profondo, bensì cambiando oggetto delle invettive».

Purtroppo, non sarà questo l’unico mutamento di campo: dopo essere stato papalino e rivoluzionario, tesserà le lodi prima di Napoleone e poi dell’imperatore d’Austria, Francesco II. Molti contemporanei, e molti altri in seguito, lo accusarono di essere voltagabbana per servilismo, per viltà, per bassezza d’animo.

Ma qualcuno ha addotto a sua scusante che egli fu semplicemente troppo ingenuo o troppo bambino, troppo superficiale o troppo vanitoso, o forse soltanto troppo pauroso; in ogni modo, fu incapace di assumere in pieno le proprie responsabilità di uomo e di poeta. È un fatto, però, che la sua volubilità non gli procurò grandi vantaggi, e che il suo interesse prevalente, se non esclusivo, fu quello di creare parole e di meritare, al massimo, un’esistenza tranquilla e un prolungato applauso.

Nel 1797, dunque, Monti fuggì da Roma, al seguito del generale Marmont e passò tra le file dei rivoluzionari. Dopo aver fatto tappa a Bologna e poi a Venezia, giunse infine a Milano dove fu nominato segretario per gli affari esteri della Cisalpina. Nel 1799, quando gli austro-russi fecero crollare quella repubblica, fuggì in Piemonte, poi a Chambéry, poi a Parigi. Rientrò in Italia solo nel 1801, quando Napoleone aveva pienamente riaffermato il proprio dominio, dopo aver inflitto agli austriaci una dura sconfitta a Marengo. Allora ottenne a Pavia la cattedra di eloquenza, e in seguito sarà proclamato «poeta del governo italiano» e ancora «istoriografo del Regno d’Italia».

In questo periodo porterà a compimento la sua opera più compiuta e perfetta, la traduzione dell’Iliade in endecasillabi sciolti, che pubblicherà nel 1810, e che sarà oggetto d’ulteriori rifacimenti fino al 1825. Vincenzo Monti, come abbiamo visto, aveva tutte le facoltà del poeta, salvo la passione. Questa passione la trovò, finalmente, nelle parole e negli eroi di Omero, e poté trasfigurarla in bellezza.

Di fronte a un testo tanto ricco di poesia, egli «poteva entusiasmarsi», osserva Gian Franco Chiodaroli, «e dare forma a tutte le fantasie visive e sonore che gli s’affollavano in mente». Su questa vasta, straordinaria opera profuse a piene mani la sua cultura umanistica, la sua estetica neoclassica, il suo amore per la bellezza. Ogni verso del grande poema, insomma, sembra plasmato dalle “Grazie”, quelle «Grazie… Senza il cui riso nulla cosa è bella».

Quanto alle altre opere di questo periodo, come la Palingenesi politica o Il Bardo della Selva Nera, siamo di fronte a componimenti d’occasione, puramente celebrativi, in cui la poesia cede il passo a un insieme di parole sfolgoranti, talvolta anche deliranti, come dirà Foscolo.

Le giravolte di Monti non erano ancora finite. Caduto Napoleone, si vide costretto a cantare le lodi dell’imperatore d’Austria, ma senza più convincere nessuno, neanche se stesso. Deluso dal mondo, da quel mondo che pure aveva decretato il suo trionfo, si chiuse in sé, intristendo e quasi abbandonando la poesia. Si dedicò allora ad impegnativi lavori filologico-linguistici, meritevoli ancor oggi di ripensamento, come la Proposta di alcune correzioni e aggiunte al Vocabolario della Crusca.

In questi ultimi anni, però, scrisse alcuni dei suoi versi più belli, umili e dimessi, lontani dal clangore di quelli più famosi, ma intensamente poetici. Alludiamo ai pochi versi su se stesso nelle ultime battute delle Nozze di Cadmo ed Ermione e alla famosa canzone Per l’onomastico della sua donna. Quello che parla è un uomo che ha vissuto molto, un uomo stanco, che s’appresta a stilare il bilancio della propria vita. Un uomo deluso, nonostante i successi, ma consapevole del proprio valore: «…La stella / del viver mio s’appressa / al suo tramonto; ma sperar ti giovi / che tutto io non morrò… / ti fia vanto il dire: Io fui l’amore / del cantor di Bassville, / del cantor che di care itale note / vestì l’ira d’Achille».

Vincenzo Monti fu un grande poeta? La critica contemporanea, sulle tracce del giudizio acuto e inesorabile pronunciato da Leopardi, propende per il no. Leggiamolo, questo giudizio: «…Tutto quello che spetta all’anima al fuoco all’affetto all’impeto vero e profondo, sia sublime, sia massimamente tenero gli manca affatto. Egli è un poeta veramente dell’orecchio e dell’immaginazione, del cuore in nessun modo».

Sia pure, ma è giusto anche rivendicare l’importanza che ebbe, nella nostra letteratura, il suo indiscutibile valore di maestro, confermato dall’inarrivabile felicità di molti suoi versi.