«In un mondo che sembra diventare sempre più pazzo», scrive Foreign Policy, «per ironia della sorte, una delle azioni più sagge e ragionevoli è stata compiuta in Medio Oriente da Gheddafi, il dittatore libico considerato a lungo un fuorilegge».
L’azione cui si riferisce la rivista americana è la decisione del governo di Tripoli di rinunciare ai suoi programmi di armamento chimico, biologico e nucleare. La Libia, commenta Foreign Policy, si è resa conto che non avrebbe ottenuto nulla dalla prosecuzione di un costoso, complesso e pericoloso programma di sviluppo degli armamenti di distruzione di massa, ha temuto di restare isolata e di non ottenere dai Paesi industrialmente avanzati quegli aiuti tecnologici, soprattutto in campo petrolifero, che le consentano di procedere nel cammino dello sviluppo economico. «Non avevamo bisogno di un programma come quello». Così ha detto Guima Abulkher, il portavoce del governo per gli affari internazionali, «ci siamo guardati intorno e abbiamo scoperto una nuova realtà». E il primo ministro Shokai Ghanem, che per giustificare la corsa libica agli armamenti aveva citato quella di Israele, ha concluso che il suo Paese, comunque, non avrebbe mai potuto usarli, esattamente come non avevano potuto usarli gli Stati Uniti in Vietnam.
Esperti dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica che fa capo alle Nazioni Unite, americani e inglesi – riferisce il New York Times – sono già al lavoro in Libia per realizzare il programma. La prospettiva è di procedere rapidamente, ma non sarà l’Onu a realizzare l’impresa, bensì saranno gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, perché è con essi che Gheddafi ha preso accordi in tal senso.
È un piccolo, ma significativo passo in avanti nella lotta per evitare la proliferazione di armi di distruzione di massa, dicono gli esperti americani di problemi del disarmo. Tanto è vero che Bush invita gli altri Paesi a seguire l’esempio libico, e già Iran, Sudan e Siria lo stanno facendo.
Il conflitto con gli Stati Uniti durava dal 1981, quando due aerei da combattimento americani avevano abbattuto un paio di aerei libici per una questione di acque territoriali. Successivamente, nel 1985, dietro gli attentati agli aeroporti di Roma e di Vienna, nei quali erano rimaste uccise 19 persone, il mondo occidentale aveva visto la lunga mano del terrorismo libico. Nel 1986, per reazione a un attentato a Berlino, dove erano rimasti uccisi due militari americani, i bombardieri degli Stati Uniti avevano colpito alcuni complessi residenziali libici uccidendo 37 persone, fra le quali la figlia di Gheddafi.
Ora, William Safire – uno dei più noti columnist statunitensi – scrive sul New York Times che il colonnello avrebbe cambiato politica anche per evitare di fare la fine di Saddam Hussein. A preoccupare il dittatore libico – commenta sulla stessa linea il Washington Post – sarebbero stati in sostanza i programmi dell’amministrazione Bush di arrivare a una democratizzazione dei principali Paesi del Medio Oriente. Ma, in realtà, è dagli anni Novanta – scrive a sua volta Foreign Affairs, la prestigiosa pubblicazione del Council on Foreign Relations – che il leader libico, allo scopo di far uscire il suo Paese dall’isolamento internazionale e evitare uno scontro con gli Stati Uniti, ha abbandonato il sostegno alle organizzazioni terroriste e insurrezionali, fino a dichiarare, dopo l’11 settembre 2001, la sua volontà di partecipare alla battaglia comune contro il pericolo del terrorismo. E sta cercando di conferire alla Libia un ruolo propulsore nella transizione politica dell’Africa, fornendo il proprio contributo positivo alla sua coesione politica e al suo sviluppo economico.
In tale contesto, Tripoli – dopo aver ottenuto l’estradizione di due sospetti, uno dei quali è stato condannato a morte – si è offerta di pagare 2,7 miliardi di dollari (dieci milioni per ogni vittima) ai familiari dei 270 passeggeri dell’aereo della Pan-Am esploso sul cielo di Lockerbie nel 1988 per un attentato da parte di elementi terroristici libici. E sempre in tale contesto si situano i colloqui, ancora ai primi passi, fra la Libia e Israele, dopo che lo stesso Gheddafi, nell’ottobre dell’anno scorso, ha ricordato che «troppo a lungo la Libia ha sostenuto la causa araba, per la quale ha pagato un tributo in denaro e in sangue, il boicottaggio degli Stati Uniti e la propria demonizzazione da parte della comunità internazionale».
Una svolta davvero epocale da quando, negli anni Ottanta, sempre il leader libico aveva detto che se il palestinese Abu Nidal era un terrorista, lo era stato anche il padre degli Stati Uniti, George Washington. Una svolta che ha già prodotto per il regime di Gheddafi un primo risultato positivo: la sospensione delle sanzioni da parte delle Nazioni Unite. Gli Stati Uniti hanno fatto sapere che non toglieranno il loro embargo fino a quando non saranno certi che la Libia è “pulita”, cioè non possiede più armi di distruzione di massa. Ma il clima è favorevole per una definitiva riconciliazione politica fra i due Paesi e per l’inizio di una loro cooperazione di carattere economico.
Usa e Libia hanno interessi comuni. Gli Usa hanno l’interesse a disporre di nuove fonti di petrolio; la Libia ha l’interesse a incrementare i propri rapporti commerciali con gli stessi Stati Uniti e con il mondo industrialmente avanzato. Tripoli non intende scusarsi per il proprio passato, ma ammette gli errori commessi. Washington conta sul suo sostegno per evitare conflitti regionali.
«Non ci sono ragioni per restare per sempre poveri», è il commento degli ambienti economici di Tripoli alla nuova politica di Gheddafi. Che ha nel primo ministro Ghanem, in quello del petrolio Abdulhafi Zlitni e in uno dei suoi due figli e suo probabile successore – Saif el-Islam Gheddafi, 34 anni, laureato alla London School of Economics di Londra, quattro lingue, abiti di taglio inglese – la “nuova faccia” della Libia, dopo gli oltre trent’anni di leadership da parte del colonnello, che l’avevano portata a essere in conflitto con l’intero mondo democratico e capitalista. Ghanem dice di sognare un’invasione della Libia, non di marines, ma di compagnie americane che chiedono concessioni petrolifere. «Noi», aggiunge, «abbiamo fatto la nostra parte, chiudendo il vecchio contenzioso. Ora tocca agli Stati Uniti».
Il programma di riforme, che sovverte i principi del vecchio “Libro verde”, la Bibbia economica del regime filo-socialista, che equiparava i lavoratori dipendenti a degli schiavi e auspicava “la fine del profitto”, è partito due anni fa con la liberalizzazione del commercio estero e dovrebbe proseguire, così almeno spera il primo ministro, con la privatizzazione dell’industria, con la concessione ai privati del permesso di possedere due case allo scopo di incentivare l’industria edilizia e con investimenti nell’industria petrolifera per 30 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Il Paese pompa 1,4 milioni di barili al giorno di petrolio, meno della metà del 1970. E questo è un problema per l’economia libica, perché le esportazioni del petrolio rappresentano la sola voce attiva della bilancia commerciale. «Non posso garantire», si cautela prudentemente Ghanem, «che tutte le riforme andranno in porto, ma Gheddafi, se non altro, mi ascolta e ne discute». La priorità, precisa, è lo sviluppo economico, non è ancora la democratizzazione del sistema politico.
Ma è un fatto che la Libia è cambiata, che essa rappresenta una delle grandi novità positive del mondo dopo la fine del bipolarismo Usa-Urss e l’irruzione del terrorismo sulla scena internazionale. E che, perciò, può rappresentare un fattore di stabilità e pace nell’area mediterranea e nell’arena mondiale di domani.