Nello scorso mese di gennaio il Papa, ricevendo il nuovo ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Giuseppe Balboni Acqua, ha ricordato due importanti tappe nei rapporti tra Italia e Vaticano: i Patti Lateranensi, di cui ricorrono i 75 anni dalla firma, e i 20 del Concordato siglato a Villa Madama. Accordi nati dalla volontà di trovare soluzioni eque alle reciproche esigenze, largamente dipesi dai momenti storici e politici, di cui ambedue le parti hanno saputo cogliere l’opportunità.
Ne è ben consapevole il cardinale Attilio Nicora, oggi presidente dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica e grande tessitore di quella tela che ha portato all’elaborazione del Concordato del 1984. In poco meno di un anno si è raggiunto, infatti, un risultato fino a quel momento tanto desiderato e mai raggiunto. Non a caso, le vicende di intese delicate come queste sono il frutto di un lavoro non rigido e prefissato, dove è la lungimiranza il motore che permette di percorrere chilometri e arrivare alla meta prescelta. Semmai, come tiene a sottolineare il porporato, «l’intelligenza delle due parti sta, di solito, nel cogliere fruttuosamente il momento opportuno».
Duttilità e leale collaborazione sono gli ingredienti indispensabili per realizzare soluzioni efficaci a problematiche all’apparenza insormontabili. E il Pontefice ha auspicato che per gli ulteriori sviluppi sia possibile lavorare nello stesso spirito e soprattutto con reciproca soddisfazione per gli accordi raggiunti.
Motivazioni chiare per una storia dagli esiti incerti, «lunga e frastagliata», come il cardinale Nicora la definisce, «segnata da crisi di governo e dalle vicende del divorzio prima e dell’aborto poi», ma che ha portato alla revisione dei Patti Lateranensi. E non dimentica gli altri attori, senza il cui prezioso contributo il Concordato non sarebbe stato realizzato. A cominciare dalla Segreteria di Stato Vaticana e dai cardinali Agostino Casaroli e Achille Silvestrini. «La trattativa per la conclusione fu relativamente breve, se si pensa ai lunghi anni che l’avevano preceduta infruttuosamente», racconta, «ricordo le due tappe che la caratterizzarono: l’accordo generale firmato il 18 febbraio, prima, e quello sugli enti e sui beni ecclesiastici sottoscritto a Villa Madama il 15 novembre dello stesso anno, al termine del lavoro svolto da una commissione ad hoc».
Possiamo fare un passo indietro per ricostruire questa complessa vicenda, soffermandoci in particolare sugli anni che hanno preceduto il Concordato del 1984?
«Occorre ricordare che il problema di un aggiornamento dei Patti Lateranensi firmati nel 1929 iniziò a porsi già in sede di assemblea costituente. S’individuò una prima indiretta soluzione grazie all’articolo 7 della Costituzione italiana. Nei primi anni del nuovo regime repubblicano l’argomento fu accantonato, anche perché questioni più urgenti affliggevano la ricostruzione del Paese. A partire dagli anni Sessanta, una sensibilità democratica più diffusa impose nuovamente all’attenzione dell’opinione pubblica l’esigenza di un aggiornamento dei Patti. Risale al 1967, con il governo Moro, il primo dibattito parlamentare alla Camera, al termine del quale l’esecutivo assunse l’impegno di avviare con la Santa Sede una trattativa per aggiornare e riconsiderare taluni contenuti del Concordato alla luce sia dei principi della Costituzione Italiana, sia dei grandi valori riproposti dal recente Concilio Ecumenico Vaticano II».
Una vicenda racchiusa nell’arco di vent’anni, che il Papa ha citato nel suo discorso al neo ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Giuseppe Balboni Acqua. Il Pontefice ha auspicato il raggiungimento a breve dello stesso obiettivo per gli eventuali sviluppi e completamenti. I tempi sono forse maturi per una modifica?
«Il Papa ha fatto riferimento ad alcune intese che hanno dato attuazione a punti specifici previsti nell’accordo dell’84 e che erano bisognosi di ulteriore concretizzazione. Ha accennato che ci potrebbero essere anche nuovi problemi da affrontare in spirito di collaborazione. Non ha parlato di revisione di quanto è stato sottoscritto vent’anni fa. Tra le questioni che resterebbero ancora da disciplinare bilateralmente cito, ad esempio, l’assistenza spirituale dei carcerati, di quanti operano nelle forze armate, dei degenti in ospedali o case di cura, come prevede l’articolo 11 dell’accordo del febbraio ’84. L’argomento è stato sinora affrontato e tradotto in un’intesa particolare per quanto concerne le forze di polizia».
Dovrebbe essere esaminato, invece, per tutti gli altri aspetti da lei evocati...
«Non si vuol dire che in questi campi non esista una normativa; ma quella esistente è di produzione unilaterale, cioè è una legislazione dello Stato italiano. L’articolo 11 prevede che, invece, sia concordata dalle due parti e aggiornata alle diverse situazioni. I cambiamenti in atto nella società, come la riforma delle forze armate o come la popolazione carceraria di diversa provenienza, o le competenze in tema di sanità passate alle regioni dopo le riforme costituzionali, impongono ulteriori riflessioni proprio perché mutamenti di non poco conto. In tutti questi settori occorrerebbe mettere mano ad intese che da un lato diano natura bilaterale alla disciplina attualmente vigente, e dall’altro affrontino in maniera aperta e costruttiva le condizioni nuove che si sono venute a creare».
È anche vero che, per alcune questioni, ci troviamo ancora in corso d’opera...
«Come nel caso delle regioni o delle forze armate, la cui riforma è in itinere. La valutazione resta affidata alle due parti in causa, che solitamente ne trattano in occasione di taluni momenti di incontro. A differenza degli accordi dell’84, siglati esclusivamente dalla Santa Sede per parte ecclesiastica, oggi grazie proprio alle disposizioni in essi contenute, per alcune materie il soggetto preposto a trattare con lo Stato italiano è la Conferenza Episcopale Italiana. Questo richiamo alla Cei è uno degli elementi di novità rispetto ai Patti del ’29. Non si può ignorare il grande rilievo che, nella vita della Chiesa italiana, ha assunto l’organizzazione dei vescovi del nostro Paese. Peraltro, come nel caso dei beni culturali ecclesiastici, non tutto ciò che attiene alle relazioni tra lo Stato e la Chiesa deve essere necessariamente formalizzato in accordi o intese. Talvolta, alcune forme di collaborazione possono realizzarsi attraverso meccanismi e strutture di rango meno alto, operativamente più agile e praticamente più utile».
La recente vicenda del crocifisso nella scuola di Ofena, in provincia dell’Aquila, su cui si è innescato un dibattito destinato a lasciare il segno, può modificare il quadro della situazione?
«La questione non è mai stata materia pattizia, ma di competenza normativa dello Stato italiano. Il vero problema è quello di una legge sulla libertà religiosa; un disegno di legge governativo, presentato alla Camera, ha avuto un iter piuttosto accidentato. Occorre chiedersi se in Italia sia opportuno o meno dotarsi di una legge generale che disciplini alcuni elementi comuni a tutti, nella logica del diritto fondamentale di libertà religiosa. Personalmente ritengo che aldilà dei contesti storici e politici complessi e variegati, vi sia una lacuna da colmare».
Il dibattito sul Concordato ha registrato, nel corso del tempo, critiche, riserve ed opposizioni. Alcuni sostenengono che il Concordato è stato un danno per tutte e due le parti. Cosa risponde a questa affermazione?
«La mia impressione è che si rischia di procedere per affermazioni generali, un po’ scontate, che non sempre aiutano la comprensione e il superamento dei problemi. Per parte mia, ritengo che il Concordato continua a mostrarsi storicamente come una realtà utile. Per certi versi insostituibile. Perché la Chiesa cattolica nella storia si organizza secondo un complesso di elementi, di strutture e di forme che non hanno precise corrispondenze nell’ordinamento statale. Se si vuole garantire uno spazio effettivo di libertà alla Chiesa cattolica così come essa è e si manifesta, è necessario descrivere degli spazi giuridici appropriati su questo tipo di realtà. Che, in quanto tale, non è assimilabile né ad un’associazione, né ad una società commerciale o tantomeno ad una fondazione. È, piuttosto, una realtà del tutto atipica e singolare che ha bisogno di una disciplina che la riconosca come tale. È più democraticamente corretto che questa disciplina venga concordata in spirito di dialogo e di partecipazione democratica. Assumendo i principi fondamentali della Costituzione repubblicana come paletti insuperabili a tutela dei diritti di tutti».