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  • Legislazione e Giurisprudenza
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Giustizia Militare

Decreto di citazione a giudizio - Nullità - Quando ricorre.
(C.p.p., art. 429)

Corte di cassazione, Sez. I, 16 novembre 2006, n. 1311. Pres. Fazzioli, Est. Cassano, P.M. Rosin (Concl.diff.), imp. ric. da sent. Corte mil. Appello Roma (condanna).

Il decreto di citazione a giudizio è nullo quando il pubblico ministero non rispetta l’obbligo di formulare la contestazione in modo chiaro, preciso e completo, sotto il profilo materiale e soggettivo.
Ai fini di ritenere completo nei suoi elementi essenziali il capo d’imputazione, è sufficiente che il fatto sia contestato in modo da consentire la difesa in relazione ad ogni elemento di accusa (1) (2).
(1) La stessa sentenza cita come precedente conforme C.Cass., Sez. I, 22.1.1994, n. 12474.
(2) Nel caso di specie, l’imputazione di furto militare pluriaggravato contestata conteneva una descrizione analitica della condotta antigiuridica, delle circostanze di tempo e di luogo di consumazione, del ruolo rivestito dal ricorrente nella realizzazione dell’illecito, per cui non si era in concreto verificata alcuna lesione dei diritti di difesa, poiché l’imputato era stato posto in condizione di fornire le sue discolpe rispetto alle accuse a lui rivolte e di instaurare, quindi, un effettivo contraddittorio.



Ricorso per cassazione - Casi di ricorso - Provvedimento impugnato - Motivazione effettiva, non manifestamente illogica e concreta - Sufficienza - Rilettura degli elementi di fatto - Esclusione.
(C.p.p., art. 606)

Corte di cassazione, Sez. I, 16 novembre 2006, n. 1311. Pres. Fazzioli, Est. Cassano, P.M. Rosin (Concl. diff.), imp. ric. da sent. Corte mil. Appello Roma (condanna).

Alla luce della nuova formulazione dell’art. 606, lett. E), c.p.p., novellato dall’art. 8 della legge 20 febbraio 2006 n. 46, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che la motivazione della pronunzia; a) sia “effettiva” e non meramente apparente, ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia “manifestamente illogica”, in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parto o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo” (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso per cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico v. come precedente conforme (1).
(1) Non è, dunque, sufficiente - continua ancora la sentenza - che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente “contrastanti” con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che - per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione - sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento.
E' invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (Sez. VI, 15 marzo 2006, ric. Casuala).
Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti “atti del processo”. Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi - anche a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi “atti del processo” e di una correlata pluralità di motivi di ricorso - in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale “esistenza” della motivazione e sulla permanenza della “resistenza” logica del regolamento del giudice.
Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.
Esaminata nell’ottica innanzi indicata, la motivazione della sentenza d’appello si è sottratta alle censure che le sono state mosse, perché il provvedimento impugnato, con motivazione esente da evidenti incongruenze o da interne contraddizioni, ha puntualmente indicato le risultanze probatorie (relazione della Commissione d’inchiesta, carico contabile redatto dal Capo servizio amministrativo, verbale di constatazione, dichiarazioni e testimonianze rese dal consegnatario dei carburanti, disponibilità da parte dell’imputato delle chiavi del magazzino taniche, atti relativi all’intervento degli agenti della polizia di Stato) sulla base delle quali si configurano gli elementi costitutivi del delitto contestato e lo stesso è soggettivamente riconducibile al ricorrente.





Successione di leggi penali - Fatto previsto dalla legge penale militare di guerra - Fatto non costituente reato, ai sensi della legge penale militare di pace - Ultrattività della legge penale militare di guerra.
(C.p., art. 2; C.p.m.g. art. 23)


Corte Militare di Appello, 3 ottobre 2006, n. 52. Pres. ed Est. Nicolosi, P.M. Ferrante V.(Concl. parz. diff.), imp. app. da sent. Trib. mil. Roma (conferma).

Nell’ipotesi di un fatto previsto dal codice penale militare di guerra, commesso nella vigenza di tale legge e non costituente reato secondo la legge penale militare di pace successivamente applicabile, non vale il principio generale dettato dall’art. 2 C.p., che impone l’applicabilità della legge più favorevole al reo (1).
Deve, infatti, applicarsi il principio generale tempus regit actum, sancito dall’art. 23 C.p.m.g. sull’ultrattività della legge penale militare di guerra, nonché dall’art. 2, comma 5, C.p., che esclude l’applicabilità della disposizione sulla successione di leggi penali, allorché la legge sopravvenuta sia eccezionale o temporanea (2).
(1) Trattavasi, nella specie, di un’ubriachezza aggravata fuori del servizio, prevista dall’art. 136 C.p.m.g. e 47, n. 2, C.p.m.p., commessa da un militare impiegato, nel 2005, nell’ambito dell’operazione militare ISAF KMNB-VII in Afghanistan, soggetta all’applicazione del codice penale militare di guerra.
L’applicabilità di tale codice è stata ammessa inizialmente dall’art. 8 del D.L. 1° dicembre 2001, n. 421, per il corpo di spedizione italiano in Afghanistan, partecipante alla campagna denominata “Enduring Freedom”. Con l’art. 3 della legge di conversione 31 gennaio 2002, n. 6, essa è stata estesa, per effetto dell’art. 9 dello stesso codice penale militare di guerra, come modificato dalla legge di conversione, ai “corpi di spedizione all’estero per operazioni militari armate”. Con l’art. 6, comma 2, del D.L. 28 dicembre 2001, n. 451, convertito nella legge 27 febbraio 2002, n. 15 è stata, peraltro, esplicitamente estesa al personale impiegato nell’intervento internazionale denominato ISAF (International Security Assistance Force).
Essendo state ritenute mutate le condizioni che avevano imposto il C.p.m.g., l’applicazione del codice di guerra venne definitivamente esclusa per tutte le operazioni militari all’estero con la legge 4 agosto 2006, n. 247, che ha disposto, all’art. 2, comma 26, l’applicazione del codice di pace.
(2) Così motiva la sentenza: “Preliminarmente la Corte si è posto il problema della successione di legge nel tempo. In effetti a decorrere dall’agosto del corrente anno, per effetto della L. 4.8.2006, n. 247 si applicano le norme previste dal codice di pace per le missioni anche armate di militari all’estero.
La Corte non ha ritenuto applicabili per i fatti antecedenti l’agosto 2006 le norme del codice di pace, giacchè a suo giudizio non sono applicabili - per la successione di leggi nel tempo - le norme più favorevoli.
In effetti il principio tempus regit actum, sancito dall’art. 23 C.p.m.g. (ultrattività della legge penale militare di guerra) sembra doversi applicare anche nel caso di cui si tratta, malgrado la norma si riferisca ai “reati commessi durante lo stato di guerra”. Certo nel caso di missioni di militari impegnati all’estero non può parlarsi di stato di guerra, ma la norma sembra riferirsi ad ogni caso di applicazione della legge penale militare di guerra. D’altra parte l’applicabilità della legge più favorevole al reo trova un limite nell’art. 2 co. 5 C.p. allorché la legge sopravvenuta sia “eccezionale e temporanea”. Ad avviso della Corte le norme contenute nell’art. 9 C.p.m.g. appaiono più generali di quelle di cui all’art. 2 co. 26 della L. 247/06. Infatti qualora oggi venisse disposta una nuova missione militare armata all’esterno e non venissero previste norme specifiche per disciplinare il trattamento giuridico per i reati eventualmente commessi durante detta missione, si dovrebbe applicare, ai sensi dell’art. 9 C.p.m.g. il codice penale militare di guerra.
Infine non può tacersi un’ulteriore considerazione: appare evidente dai lavori preparatori alla L. 247/06 che il legislatore abbia ritenuto mutate le condizioni che avevano imposto l’applicabilità del C.p.m.g. per le operazioni in Afghanistan. Se prima la missione era destinata a combattere il triste fenomeno del terrorismo, si è determinata, secondo quanto affermato nei lavori preparatori, successivamente una nuova e diversa finalità e cioè la necessità di garantire il ripristino e la tutela della democrazia e della legalità, e ciò ha portato il legislatore a modificare la disciplina giuridica.
Ritenuta quindi l’ultrattività della legge di guerra (nell’ipotesi contraria infatti si sarebbe dovuto affermare che il fatto non è preveduto dalla legge come reato, non essendo previsto dal codice di pace l’ipotesi di ubriachezza fuori dal servizio), la Corte è passata ad esaminare il merito.
Appare infondato l’appello. La “ratio” della norma contenuta nell’art. 136 C.p.m.g. è quella di garantire in qualsiasi momento l’idoneità dei militari a prestare qualsiasi servizio essi potessero esser chiamati. Ciò spiega il motivo per il quale tale norma non trova asilo nel codice di pace. Le situazioni che possono verificarsi circa a necessità di impiego anche di militari che non sono stati comandati a svolgere un servizio o che non sono nell’attualità di un servizio sono molto più frequenti nei casi in cui si applica il codice di guerra, e, quindi, tenuto conto del pericolo maggiore, il legislatore di guerra ha ritenuto necessaria la tutela di una eventuale possibile necessità di impiego. Che la tutela sia rivolta al servizio risulta pacifico giacché detto reato è compreso nel titolo III “dei reati contro il servizio di guerra”, e che il legislatore abbia voluto garantire la piena idoneità del militare a svolgere un qualsiasi eventuale servizio risulta evidente anche dall’esame dell’art. 137 C.p.m.g. (“alterazione psichica determinata dall’uso di sostanze stupefacenti”).
In altre parole ciò che il legislatore ha inteso punire è qualsiasi stato di alterazione delle capacità fisico-psichiche del soggetto, tali da pregiudicare in tutto o in parte l’idoneità a prestare il servizio.
Se questa è la “ratio” della norma, e non possono esistere dubbi in proposito, appare evidente che la differenza tra stato di ebbrezza ed ubriachezza piena è priva di importanza. In entrambi i casi il destinatario della norma ha pregiudicato la sua idoneità a prestare il servizio, con ciò violando la prescrizione nella norma stessa contenuta.
Che poi l’ubriachezza sia stata piena o solo parziale non ha alcuna rilevanza ai fini della tutela del servizio.
Che il xxx abbia quantomeno menomato la propria idoneità a prestare un servizio eventuale, appare evidente dal testo della sentenza impugnata. La testimonianza del xxx ampiamente riportata nella motivazione non lascia adito a dubbi. Il fatto che detto sanitario abbia ritenuto di dover togliere la pistola all’imputato, di lasciare di guardia lo xxx anche quanto il xxx si era addormentato, dimostra a dismisura lo stato di alterazione fisico-psichico. Il fatto che il xxx viste le condizioni del prevenuto abbia ritenuto necessario chiamare il medico in quanto il xxx “urlava”, “barcollava anche un po’“ dimostra che in effetti l’imputato era stato colto in stato di ubriachezza (nel senso prima precisato). Confermano tale stato le testimonianze del xxx, del xxx e del xxx, che ha notato che il prevenuto “barcollava”, “diceva frasi sconnesse”, “tirava pugni agli ecobester“. Lo stesso xxx ha ricordato che il xxx “diceva frasi senza senso”.
Appare quindi logico che il primo giudice, a fronte di queste molteplici testimonianze, abbia ritenuto non attendibile la testimonianza del xxx e ininfluente quella del xxx.
Risulta quindi ampiamente provata la sussistenza degli elementi costitutivi, materiale e psicologico, del reato in questione, così come correttamente è stato affermato nell’impugnata sentenza, la quale apparendo immune da vizi dev’essere totalmente confermata, con conseguente condanna dell’imputato al pagamento delle ulteriori spese di giudizio, ai sensi dell’art. 592 C.p.p..
Infine, la Corte non ritiene di dover condonare la pena inflitta ai sensi dell’indulto concesso con L. 31 luglio 2006 n. 241, così come richiesto dal Procuratore Generale militare. Infatti tenuto conto del fatto che al condannato sono stati concessi entrambi i benefici di legge, il positivo trascorrere del tempo richiesto dalla legge comporterà l’estinzione del reato, con conseguenze più favorevoli rispetto all’indulto, che produce solo l’estinzione della pena.