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  • N. 3/4 - Luglio-Dicembre
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  • Legislazione e Giurisprudenza
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Giustizia Amministrativa

Sentenze tratte dal sito www.giustizia-amministrativa.it (Massime a cura della Redazione

Disciplina militare di stato - Perdita del grado per rimozione - Fattispecie di illecito - Assunzione di sostanze stupefacenti - Violazione dei doveri di lealtà e correttezza - Sussistenza.

L’assunzione di sostanze stupefacenti, la cui natura giuridica è quella di illecito amministrativo, ai sensi della legislazione vigente, per un militare, istituzionalmente preposto alla repressione del contrabbando e del traffico di stupefacenti, si pone come comportamento contrario ai doveri di lealtà e correttezza assunti con il giuramento, quindi come illecito disciplinare grave, sanzionabile con la perdita del grado per rimozione.


Disciplina militare di stato - Sanzione disciplinare - Valutazione gravità e proporzionalità - Discrezionale apprezzamento dell’amministrazione - Legittimità.

Il provvedimento che infligge una sanzione disciplinare (specie quella più grave) è adeguatamente motivato, allorché individua, con sufficiente chiarezza, i relativi presupposti di fatto, la manifesta gravità degli stessi, nonché le ragioni che hanno indotto l’amministrazione a considerare incompatibili i fatti commessi con la prosecuzione del rapporto di servizio. La valutazione della gravità di un comportamento ai fini disciplinari e della proporzione tra la sanzione disciplinare irrogata e la gravità dei fatti contestati, costituisce manifestazione del discrezionale apprezzamento dell’amministrazione, suscettibile di sindacato di legittimità solo per macroscopici vizi logici che nella specie non sussistono.
Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 2 ottobre 2006, n. 5759 (c.c. 27 giugno 2006), Pres. Venturini, Est. Salvatore, S. F. c. Ministero finanze (conf. T.A.R. Lazio - Roma, sez. II, sent. 4 novembre 2004, n. 12430).

Si legge quanto appresso in sentenza:
“2. Il Collegio osserva che nessuna delle critiche rivolte alla sentenza appellata è meritevole di favorevole considerazione.
In via prioritaria, va rilevato che, con riferimento al precedente punto 1.1., lett. b), le critiche incentrate sulle modalità di trasporto e di apertura del pacco contenente i campioni prelevati e sul mancato invito alle operazioni successive, che si sono svolte senza alcun preavviso, per cui non sarebbe da escludere una contaminazione, ancorché involontaria, degli stessi, nonché quelle sui criteri da seguire, dal punto di vista scientifico, per attribuire attendibilità agli esami effettuati presso l’Università del Sacro Cuore alla luce del parere della Prof. A. L., introducono per la prima volta in appello profili di censura non sollevati con il ricorso originario. Esse, pertanto, prima ancora che infondate, sono inammissibili.
Nel merito, nessuna delle critiche avanzate dall’appellante è tale da condurre a conclusioni diverse da quelle raggiunte dal primo giudice.
Al riguardo, conviene ricordare che le tappe del procedimento disciplinare, che si è concluso con la perdita del grado per rimozione, sono analiticamente e dettagliatamente evidenziate nel provvedimento del Comandante Generale della Guardia di Finanza.
In esso, infatti - pur dandosi atto della mancanza di prova dell’addebito circa la detenzione di sostanza stupefacente, essendo emerso nel corso del procedimento che quella sequestrata non appartiene a nessuna delle droghe conosciute attualmente in circolazione - sono esplicitate le ragioni che dimostravano inequivocabilmente le responsabilità del militare (dichiarazione, nell’immediatezza del fatto, di fare uso di droga da circa due anni e di avere acquistato la sostanza sequestrata poco prima da un certo Emanuele, giunto sul posto a bordo di una “Fiat Tipo” di colore grigio metallizzato in compagnia di tale Maurizio; referto della Facoltà di Medicina e Chirurgia “Agostino Gemelli” dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, attestante la positività all’uso di cocaina e diagnosi in data 25 maggio 2001 del Centro militare di Medicina Legale di Roma, attestante la “persistente reattività disforia in soggetto tossicomane accertato”); sono richiamate dettagliatamente le difese addotte dall’interessato a propria discolpa (firma dei verbali in stato di emotività senza leggerne il contenuto; errore materiale della diagnosi di positività alla cocaina emersa dall’esame di laboratorio, tenuto conto che gli esami ematici e delle urine sono risultati negativi; probabile contatto involontario con sostanza stupefacente, avvenuto nei giorni antecedenti al proprio fermo a seguito di operazioni di servizio effettuate); sono, infine, analiticamente indicate le ragioni che impedivano di accogliere le discolpe predette e che inducevano a concludere nel senso del mancato possesso da parte dell’inquisito dei “requisiti morali” e della sua incompatibilità con la permanenza nello status di appartenente alla Guardia di Finanza, essendo stata provata a suo carico la piena violazione del giuramento prestato, cui consegue, ai sensi dell’art. 60 della legge 3 agosto 1954, n. 599, la perdita del grado per rimozione.
Ad avviso del Comandante Generale, gli addebiti contestati e poi provati nel corso del procedimento disciplinare, denotano gravi carenze di qualità morali e di carattere, perché il militare, assumendo droga, è entrato in netto contrasto con le finalità del Corpo in cui presta servizio, istituzionalmente preposto alla repressione di tali traffici ed ha arrecato grave nocumento all’immagine ed al prestigio della Guardia di Finanza.
Il contenuto del provvedimento impugnato consente, in primo luogo, di rilevare che tutti i profili di censura muovono dal presupposto, errato, che la perdita del grado per rimozione sia stata considerata una conseguenza automatica dell’uso di sostanze stupefacenti. Al contrario, dalle motivazioni poste a base del citato provvedimento, ampiamente richiamate, si ricava in modo evidente che gli elementi di fatto emersi sono stati valutati come incompatibili con lo status di militare della Guardia di Finanza, per la decisiva ragione che il comportamento del F[.] ha denotato gravi carenze di qualità morali e di carattere e si è posto in palese contrasto con gli obblighi nascenti dal giuramento.
2.1. Passando, poi, all’esame dei singoli rilievi mossi con il primo motivo di appello, si deve subito osservare che le prime analisi effettuate nell’immediatezza del fermo amministrativo, vale a dire quelle svolte in data 24 aprile 2001 presso il Centro Militare di Medicina Legale di Roma - Cecchignola, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, si sono concluse con un giudizio della CMO non di segno negativo, ma interlocutorio, avendo diagnosticato uno “stato ansioso disforico di grado moderato in soggetto con sospetta tossicosi in attesa di ulteriori accertamenti”, con conseguente non idoneità al servizio militare incondizionato per trenta giorni.
Identico giudizio diagnostico veniva formulato sotto la stessa data dall’Ambulatorio psichiatrico del Centro suddetto, il quale consigliava l’analisi del capello.
Pertanto, il successivo giudizio diagnostico espresso dalla medesima CMO in data 25 maggio 2001, in base al quale - presa visione del giudizio psichiatrico e dell’analisi del capello eseguito il 16 maggio 2001 dalla facoltà di Medicina e Chirurgia del policlinico “A. Gemelli” - è stata riscontrata una persistente reattività disforia in tossicomane accertato, con conseguente non idoneità al servizio militare incondizionato per 180 giorni, lungi dall’essere in contrasto con quello del 24 aprile 2001, costituisce la semplice prosecuzione degli accertamenti precedenti.
In base alle considerazioni che precedono, è da escludere che nella specie vi sia stata discordanza tra i vari pareri medico - sanitari intervenuti e vanno, pertanto, disattesi i rilievi critici di cui al precedente punto 1.1. lett. a) e b) vuoi perché, non essendo stata effettuata un’analisi comparativa di differenti esami, non occorreva il supporto di un’indagine peritale ovvero di un parere scientifico, vuoi perché tutti gli esami di laboratorio sono stati effettuati, ovviamente, in presenza dell’interessato.
Né può condurre a diversa conclusione il parere della Commissione Medica di Seconda Istanza del 23 febbraio 2002, recante un giudizio di “lieve reattività ansiosa in soggetto senza segni di scompenso psicopatologico in atto con allegata denegata e non riscontrata tossicofilia”.
Il provvedimento di rimozione per perdita di grado non è stato emanato in considerazione delle condizioni psico-fisiche dell’interessato, ma per la violazione dei doveri di lealtà e correttezza assunti con il giuramento e per carenza delle qualità morali e di carattere.
In altri termini, come correttamente affermato dal primo giudice, l’esito della seconda visita medica è assolutamente irrilevante, posto che causa del provvedimento espulsivo non è lo stato di salute e l’efficienza del soggetto, da accertarsi mediante accertamenti strumentali sanitari rigorosi e da apprezzarsi sul piano medico legale, bensì valutazioni di tipo morale ed attitudinale che si collocano sul piano della sfera caratteriale del finanziere.
Altrettanto irrilevante, ai fini della legittimità del provvedimento impugnato, è la circostanza che la sostanza sequestrata è risultata non essere “cocaina”, atteso che di tale circostanza dà atto lo stesso provvedimento impugnato, nel quale si precisa che dell’esito negativo dell’esame di laboratorio si è avuto conoscenza solo nel corso dell’istruttoria del procedimento disciplinare. Ciò che dimostra come il provvedimento di rimozione è stato adottato senza tenere in alcun conto la natura della sostanza sequestrata, inizialmente qualificata “cocaina”.
In realtà, come esplicitamente chiarito nel provvedimento di rimozione, la responsabilità del F[.] è stata desunta, oltre che dai risultati delle analisi alle quali il medesimo è stato sottoposto, anche dalla sua dichiarazione, resa nell’immediatezza del fatto, di fare uso di cocaina da circa due anni e, quanto alla sostanza sequestrata (asseritamene “cocaina”), di averla acquistata poco prima da un certo Emanuele, giunto sul posto a bordo di una “Fiat Tipo” di colore grigio metallizzato in compagnia di tale Maurizio.
La tesi, esposta in sede di discolpa e riprodotta nel presente giudizio, di avere firmato i verbali in parola in stato di emotività senza leggerne il contenuto, appare, oltre che poco credibile come sostenuto nel provvedimento impugnato, stante l’anzianità di servizio (dodici anni) del militare proprio in attività antidroga, solo un tentativo difensivo, chiaramente smentito dai fatti.
Va, a questo proposito, rammentato che il ricorrente è stato sorpreso nella sua autovettura in occasione di un perlustramento da parte di agenti di polizia giudiziaria del Commissariato di P.S. “Anzio - Nettuno”, nel corso del quale gli agenti avevano incrociato una Fiat Tipo di colore grigio metallizzato, targata […], con a bordo tre persone, alla cui guida veniva riconosciuto il sig. M[.] Maurizio, noto pregiudicato da tempo oggetto di indagini da parte della Squadra Mobile del predetto Commissariato, perché dedito allo spaccio di stupefacenti del tipo “cocaina” in notevole quantità. In particolare, secondo quanto emerge dal rapporto del 19 aprile 2001, il F[.] veniva notato durante le ricerche in una delle stradine sterrate esistenti nella zona del M[.] che, accortosi della presenza degli agenti della polizia di Stato, era riuscito a far perdere le proprie tracce.
Ora, se si tiene conto che nella dichiarazione resa dal F[.] si parla di un certo Emanuele per individuare il venditore della sostanza sequestrata, giunto sul posto a bordo di un’autovettura Fiat Tipo di colore grigio metallizzato in compagnia di tale Maurizio, non sembra possano sorgere dubbi sul fatto che tali soggetti siano da individuare, rispettivamente, il primo in C[.] Emanuele, risultato intestatario dell’autovettura Fiat Tipo di colore grigio metallizzato, e il secondo, nel noto pregiudicato spacciatore di droga M[.] Maurizio.
Il che conferma la piena attendibilità dell’ammissione sull’uso da circa due anni della droga, fatta dall’inquisito nell’immediatezza dei fatti, ammissione che non può essere smentita dal tentativo successivo di attribuire l’accertata positività, in un primo tempo, a probabili errori di laboratorio e, in un secondo momento, alla possibilità di essere entrato in contatto con lo stupefacente per ragioni di servizio.
Concludendo sul punto, il primo motivo di appello è infondato e va, pertanto, respinto.
3. Con il secondo motivo di appello la sentenza viene censurata per erronea, insufficiente e/o inefficiente motivazione circa la sufficienza del presunto stato di tossicodipendenza per il provvedimento di rimozione.
La tesi del primo giudice, secondo la quale l’amministrazione non è tenuta a prendere in esame la possibilità di irrogare una sanzione meno afflittiva, atteso che, giusta il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, è sufficiente che la determinazione che irroga una sanzione disciplinare (specie quella più grave) indichi i relativi presupposti di fatto, la manifesta gravità degli stessi nonché le ragioni che hanno indotto l’amministrazione a considerare incompatibili i fatti commessi con la prosecuzione del rapporto di servizio, viene contestata perché non considera, da un lato, che il ricorrente non è risultato affetto né da tossicodipendenza né da tossicofilia (come accertato dalla Commissione medica di Roma, la quale, in esito agli accertamenti effettuati agli inizi del 2002, ha riscontrato il F[.] affetto da “lieve reattività ansiosa in soggetto senza segni di scompenso psicopatologico in atto con allegata denegata e non riscontrata tossicofila” lo ha ritenuto idoneo al servizio militare nella Guardia di Finanza), e, dall’altro lato, che l’assunzione saltuaria di sostanze stupefacenti non giustifica, di per se, la sanzione della perdita del grado per rimozione.
L’assunto non può essere condiviso.
In punto di fatto, conviene ricordare che il Comandante Generale della Guardia di Finanza ha disposto la perdita del grado per rimozione, avendo ritenuto che il Maresciallo, con il suo comportamento, aveva denotato la carenza delle qualità morali e di carattere ed era venuto meno ai doveri di lealtà e correttezza assunti con il giuramento, ponendosi altresì in contrasto con le finalità istituzionali del Corpo.
In diritto, si deve rilevare che, come ripetutamente affermato dalla Sezione (cfr., Sez. IV, 25 maggio 2005, n. 2705; 15 maggio 2003, n. 2624; 30 ottobre 2001, n. 5868; 12 aprile 2001, n. 2259; 31 luglio 2000, n. 3647) e ribadito anche di recente (Sez. IV, 14 ottobre 2005, n. 5682), la valutazione della gravità di un comportamento ai fini disciplinari e della proporzione tra la sanzione disciplinare irrogata e la gravità dei fatti contestati, costituisce manifestazione del discrezionale apprezzamento dell’amministrazione, suscettibile di sindacato di legittimità solo per macroscopici vizi logici che nella specie non sussistono.
Come si è avuto modo di chiarire (cfr. Sez. IV, 31 luglio 2000, n. 3647), che l’assunzione di sostanze stupefacenti sia indice della gravità del comportamento del militare, si ricava dalla considerazione che, anche dopo la parziale abrogazione ad opera del referendum del 18 aprile 1993 di alcune norme del Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti (D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309), a mente dell’art. 75 del predetto Testo unico, l’assunzione di sostanze stupefacenti rimane illecito amministrativo.
Tanto più grave per un militare della Guardia di Finanza il cui compito è di contrastare il commercio di sostanze stupefacenti.
Il sindacato di legittimità sul giudizio operato dall’Amministrazione militare deve, coerentemente, essere calibrato sui compiti specifici che questa attende (nella specie fra i compiti d’istituto della Guardia di finanza vi rientra l’azione di contrasto al contrabbando ed al traffico di sostanze stupefacenti) e sulle attività istituzionali ad essa commesse (di rilievo quelle di polizia giudiziaria ordinaria e militare), senza invadere gli apprezzamenti di natura tecnico discrezionale a questo sottesi.
In altri termini, posto che il giudizio di tenuità di una sanzione disciplinare è direttamente correlato alla qualità dell’interessato, non può essere connotato da “tenuità” il comportamento di un Maresciallo, con dodici anni di anzianità, istituzionalmente preposto alla repressione del contrabbando e del traffico di stupefacenti, il quale, in contrasto con i doveri di lealtà e correttezza assunti con il giuramento, faccia uso di sostanze stupefacenti.
Il Collegio non ignora che, secondo taluni precedenti della sezione (cfr., IV Sez., 14 gennaio 1999, n. 20; id., 18 giugno 1998 n. 948), si è escluso, ai fini del reclutamento, che il vizio degradante di cui all’art. 31 R.D. 3 gennaio 1926, n. 126 fosse rintracciabile in un episodio isolato di assunzione di sostanza stupefacente di tipo hascisc, giacché come tale, doveva intendersi solo quello consistente in un stato patologico del fisico o in una grave devianza della psiche del candidato.
Si deve, peraltro, osservare che, in tali fattispecie, doveva essere riscontrato lo stato di salute e l’efficienza del soggetto, mediante accertamenti strumentali sanitari rigorosi, da apprezzarsi sul piano medico legale, e non confondibili con le valutazioni di tipo morale ed attitudinale che si collocano sul piano della sfera caratteriale dell’aspirante all’arruolamento.
Nel caso di specie, invece, non è in contestazione l’efficienza psico-fisica del finanziere, bensì la sua valenza morale ed attitudinale.
Inoltre, a ben vedere, diversa è la posizione di un soggetto che non ha ancora assunto, mercé l’arruolamento, gli obblighi giuridici e deontologici del militare in servizio, rispetto a quella di chi, già appartenente al Corpo, li infrange. In quest’ultimo caso, la riscontrata mancanza di affidamento sulle doti morali e caratteriali del militare ben può fondarsi sul provato uso di sostanze stupefacenti anche se circoscritto nel tempo, secondo un giudizio di disvalore che rientra nell’esclusiva determinazione del Comandante Generale.
Quanto all’asserita sproporzione tra fatto contestato e sanzione inflitta, va ricordato la pacifica giurisprudenza (A.P. 26 giugno 2000, n. 15), secondo cui anche questo aspetto rientra nella sfera di apprezzamento discrezionale dell’amministrazione.
In tale contesto interpretativo, si deve ribadire la irrilevanza, ai fini della legittimità del provvedimento impugnato, del parere della Commissione medica di seconda istanza di Roma, per la decisiva ragione che il provvedimento di rimozione per perdita di grado non è stato emanato in considerazione delle condizioni psico-fisiche dell’interessato, ma per la violazione dei doveri di lealtà e correttezza assunti con il giuramento e per carenza delle qualità morali e di carattere.
In altri termini, l’esito della seconda visita medica è assolutamente ininfluente, posto che causa del provvedimento espulsivo non è lo stato di salute e l’efficienza del soggetto, da accertarsi mediante accertamenti strumentali sanitari rigorosi e da apprezzarsi sul piano medico legale, bensì valutazioni di tipo morale ed attitudinale che si collocano sul piano della sfera caratteriale del Maresciallo.
Alla luce delle considerazioni che precedono, l’appello va respinto”.

Assunzione di sostanze stupefacenti e doveri connessi con il giuramento prestato

1. La rilevanza disciplinare dell’uso di sostanze stupefacenti in base al Regolamento di disciplina militare.

La recente pronuncia del Consiglio di Stato contribuisce a consolidare un orientamento giurisprudenziale che vuole sottolineare sia l’illiceità disciplinare dell’assunzione, anche occasionale, di sostanze stupefacenti da parte di un militare, sia l’ampia possibilità di valutazione discrezionale di un simile comportamento da parte dell’amministrazione. In realtà, la materia è stata oggetto di differenti sistemazioni interpretative, in relazione al diverso coinvolgimento dell’appartenente alle Forze armate con le sostanze stupefacenti o psicotrope. La giurisprudenza non ha mancato, altresì, di rilevare la diversa incidenza dell’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, in relazione ai diversi momenti in cui l’amministrazione militare entra in rapporto con un soggetto che ha fatto uso, anche per una sola volta, di simili sostanze. In particolare, si è distinto tra problematiche connesse con l’attività di reclutamento e questioni concernenti la costanza del rapporto di servizio(1). Per quel che riguarda la sentenza in commento, ovviamente il riferimento è alla questione della compatibilità del comportamento di assunzione di sostanze stupefacenti con la permanenza del rapporto di impiego, rilevato che, senza alcuna ombra di dubbio, la condotta in questione costituisce illecito disciplinare. Una rapida ricognizione normativa ci conduce ad un primo immediato riscontro positivo, la norma di cui all’art. 36 R.D.M. (d.P.R. 18 luglio 1986, n. 545)(2). In effetti, l’art. 36, comma 3, lett. d), R.D.M. dispone che il militare deve evitare l’uso di sostanze che possano alterare il suo equilibrio psichico(3). La formulazione della norma, volutamente ampia ed elastica, ricomprende qualsiasi tipo di sostanza che sia idonea a provocare un’alterazione dello stato psichico di un soggetto. La previsione normativa, però, non sembra sufficiente a fondare un giudizio di incompatibilità circa la permanenza in servizio di un militare che non si conformi a tale precetto. In effetti, l’art. 36 R.D.M., il quale detta le norme di contegno del militare, è condizionato nella sua applicazione (come quasi tutte le norme del Regolamento di disciplina militare) dalle tassative previsioni dell’art. 5 della legge di principio sulla disciplina militare, legge 11 luglio 1978, n. 382. L’art. 5, 2° comma, l. n. 382/1978, prescrive che i militari sono tenuti all’osservanza del Regolamento di disciplina militare dal momento dell’incorporazione a quello della cessazione dal servizio attivo. Il predetto limite di efficacia del Regolamento di disciplina militare, così come stabilito espressamente dalla legge, esclude che possano essere soggetti alle regole della disciplina militare di corpo i militari delle categorie in congedo, a differenza di quanto avveniva con i precedenti regolamenti di disciplina, i quali prevedevano apposite norme anche per questi ultimi militari. L’art. 5, l. n. 382/1978, però, al successivo 3° comma, introduce una norma che integra il principio generale enunciato al precedente comma. Infatti, viene stabilito che il Regolamento deve prevedere la sua applicazione nei confronti dei militari che si trovino in una delle seguenti situazioni:
- svolgano attività di servizio (non siano, cioè, in licenza, in permesso, a riposo, in libera uscita, in un’altra situazione di assenza autorizzata o, comunque, “liberi dal servizio”);
- siano in luoghi militari o comunque destinati al servizio (al di là della circostanza che svolgano o meno attività di servizio);
- indossino l’uniforme (in qualsiasi luogo e in qualsiasi circostanza);
- si qualifichino, in relazione a compiti di servizio, come militari o si rivolgano ad altri militari in divisa o che si qualificano come tali(4).
L’ultima condizione sottolinea il fatto che il militare, anche “libero dal servizio”, in abiti civili e al di fuori dei luoghi militari, deve osservare le regole della disciplina militare ogni qual volta deve intervenire per compiti di servizio (deve effettuare un intervento disciplinare nei confronti di altri militari, presta soccorso - qualificandosi come militare - a chi versi in pericolo o abbisogni di aiuto, presta soccorso - richiestone anche verbalmente - alla polizia giudiziaria, ed altro ancora), o si relazioni con altri militari, in qualsiasi circostanza di tempo e di luogo, sapendo - ovviamente - di relazionarsi con altri militari (perché sono in divisa o perché si qualificano espressamente come tali). La norma di cui all’art. 5, 3° comma, l. n. 382/1978, limita in maniera considerevole l’ambito di applicazione del Regolamento di disciplina militare che, però, recupera la sua sfera di efficacia nei confronti di tutti i militari in servizio attivo alle armi, in base alla successiva disposizione di cui all’art. 5, 4° comma, l. n. 382/1978(5). Quest’ultima norma prescrive che anche quando non ricorrano le condizioni precedentemente elencate, i militari sono tenuti all’osservanza delle disposizioni del Regolamento di disciplina che concernono i doveri attinenti al giuramento prestato, i doveri attinenti al grado e i doveri attinenti alla tutela del segreto e al dovuto riserbo sulle questioni militari(6). In sostanza, i militari in servizio attivo alle armi devono sempre osservare le norme poste dagli artt. 9, 10 e 19 R.D.M.
In tale quadro, le norme di contegno, di cui all’art. 36 R.D.M., sono contestabili al militare, in caso di loro violazione, soltanto quando sia applicabile il Regolamento di disciplina militare. Si tenga presente, però, l’eventuale, ulteriore capacità lesiva di un comportamento di assunzione di sostanze stupefacenti in relazione all’esigenza di salvaguardia del prestigio dell’amministrazione militare.
In particolare, il militare ha il dovere di tenere in ogni circostanza una condotta esemplare ed onorevole. Questo specifico dovere si trova contemplato, così come formulato, nello stesso art. 36, comma 1, R.D.M. Anche per questo dovere, allora, dobbiamo svolgere le precedenti considerazioni per le quali lo stesso sembrerebbe attenere esclusivamente all’applicazione del Regolamento di disciplina militare, secondo le condizioni prestabilite all’art. 5, 3° comma, l. n. 382/1978. In realtà, l’art. 36 R.D.M. obbliga il militare a tenere in ogni circostanza una condotta esemplare per uno scopo particolare: la salvaguardia del prestigio delle Forze armate. È opportuno a questo punto effettuare qualche considerazione ulteriore in merito.

2. Assunzione di sostanze stupefacenti e lesione del prestigio dell’istituzione.

Il dovere di salvaguardia del prestigio dell’istituzione militare di appartenenza costituisce un dovere attinente al grado rivestito (art. 10 R.D.M.), perciò da osservare incondizionatamente da parte del militare in servizio attivo alle armi. Possiamo affermare con certezza, allora, che il dovere di tenere una condotta esemplare ed onorevole (cioè finalizzata alla salvaguardia del prestigio delle Forze armate) sia un dovere attinente alla posizione di servizio attivo alle armi del militare. L’importanza dell’art. 36 R.D.M., in combinato disposto con l’art. 10 R.D.M., al fine di comprendere appieno il concetto di prestigio dell’istituzione e, conseguentemente, le ipotesi di lesione di questo bene immateriale, ma straordinariamente importante per le Forze armate in termini di immagine, esterna ed interna, di fiducia accordata dai cittadini e dagli stessi appartenenti all’istituzione e, indirettamente, di efficienza organizzativa e funzionale, non si limita alla formulazione del suo 1° comma. Ancor più del comma 1, il comma 2 dell’art. 36 R.D.M. dà una positiva indicazione di quello che dovrebbe essere un comportamento esemplare ed onorevole, cioè, l’improntare il proprio contegno al rispetto delle norme che regolano la civile convivenza. Rispettando queste norme, non solo si evitano lesioni del prestigio dell’istituzione, ma si tiene costantemente una condotta esemplare. Alcune norme di civile convivenza vengono infine elencate sia per la loro importanza sia a scopo esemplificativo, al successivo comma 3 dell’art. 36 R.D.M.(7).
La violazione delle prescrizioni contenute nell’art. 36 R.D.M., però, non sempre costituisce una violazione del prestigio dell’istituzione: può essere indice di questa lesione quando al comportamento tenuto si legano elementi estrinseci, come le negativa risonanza pubblica, conseguente all’episodio che vede coinvolto un militare. La lesione del prestigio dell’istituzione, cioè un comportamento disonorevole disciplinarmente sanzionabile, si configura perciò quando la condotta del singolo riverberi negativamente sull’istituzione in termini di apprezzamento o di giudizio negativo per la condotta tenuta. Il singolo, in quanto appartenente all’istituzione, è anche l’immagine individuale della stessa, dei suoi valori, della sua rilevanza sociale: perciò il pubblico si aspetta da lui sempre un comportamento esemplare e rispettoso delle regole della civile convivenza. Ecco, allora, che tramite la salvaguardia del prestigio dell’istituzione, rientrano in campo disciplinare comportamenti privati che non hanno un diretto ed immediato collegamento con il servizio, ma infrangono regole di civile convivenza. Dobbiamo, però, avvertire che in dottrina si sono sollevati diversi dubbi sulla possibilità di punire comportamenti attinenti alla sfera privata, anche attraverso la norma di cui all’art. 10 R.D.M.(8). è necessario, allora, circoscrivere la fattispecie di lesione del prestigio dell’istituzione, individuando esattamente gli elementi costitutivi della stessa. è importante, innanzitutto, che al fatto sia collegato sempre un effetto di negativa risonanza pubblica, come precedentemente accennato. Possiamo anche affermare che la lesione del prestigio dell’istituzione non si configura in tutti i suoi elementi costituitivi quando il fatto, pur essendo indice di inosservanza delle regole della civile convivenza, non abbia una risonanza pubblica o, anche qualora l’avesse, non venga qualificato dalla circostanza che a commetterlo sia un militare, in quanto questa circostanza non emerga. Bisogna, a questo punto, intenderci per risonanza pubblica (negativa), poiché - letteralmente - si potrebbe ipotizzare che questa si abbia solo quando l’evento sia a conoscenza di un numero più o meno rilevante di persone. L’ambito più o meno esteso di conoscenza dell’ipotesi di lesione al prestigio dell’istituzione è sicuramente una circostanza che aggrava la condotta, ma per la realizzazione della fattispecie antidisciplinare è sufficiente che anche un numero ristrettissimo di persone (anche una sola) sia a conoscenza diretta del fatto (un passante che vede un militare in divisa che nei pressi di una persona che invochi aiuto si gira e se ne va: non solo è stato infranto il disposto di cui all’art. 36, comma 3, lett. b), ma anche e in modo ancor più grave il disposto di cui all’art. 10 R.D.M.).
Detto ciò, nel caso in esame del Consiglio di Stato, sarebbe ipotizzabile la lesione del prestigio dell’istituzione anche solo in base alla circostanza per la quale i soggetti entrati in contatto con il ricorrente, al fine di cedere la sostanza stupefacente, fossero stati a conoscenza della qualità dell’acquirente di appartenente ad un corpo militare di polizia. Non c’è dubbio che, qualora soggetti dediti ad attività delittuose abbiamo constatazione diretta di connessi comportamenti illeciti da parte di coloro che sono preposti proprio ad ostacolare e reprimere tali attività, il prestigio dell’istituzione al quale appartenga chi pone in essere tali violazioni sia gravemente leso. Quanto sopra, però, nel caso di specie non è dato sapere sia avvenuto (che - cioè - i due soggetti menzionati nella sentenza fossero a conoscenza che il ricorrente era un appartenente ad un corpo militare di polizia), anzi, tenendo conto che l’amministrazione non ha contestato una mancanza del genere in sede di procedimento disciplinare, si deve supporre il contrario.

3. Assunzione di sostanze stupefacenti e violazione del giuramento prestato.

Rilevato che la violazione dell’art. 36 R.D.M. non è sufficiente a fondare una sanzione disciplinare di stato e non può applicarsi al caso in questione, e che la lesione del prestigio dell’istituzione non è stata contestata, dobbiamo verificare l’esattezza dell’assunto che vuole identificata nell’assunzione di sostanze stupefacenti una violazione del giuramento prestato. Si tenga conto che a norma dell’art. 60, 1° comma, numero 6), legge 31 luglio 1954, n. 599, recante lo stato dei sottufficiali dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica(9), la perdita del grado per rimozione è irrogabile per violazione del giuramento o per altri motivi disciplinari.
La prestazione del giuramento comporta per il militare l’osservanza di specifici doveri, contemplati dall’art. 9 R.D.M.(10). Infatti, la norma prevede che con il giuramento il militare s’impegna solennemente ad operare per l’assolvimento dei compiti istituzionali delle Forze armate, con assoluta fedeltà alle istituzioni repubblicane, con disciplina ed onore, con senso di responsabilità e consapevole partecipazione, senza risparmio di energie fisiche, morali ed intellettuali, affrontando - se necessario - anche il rischio di sacrificare la vita. Si tratta dei doveri di fedeltà, lealtà e correttezza la cui estrema importanza è sottolineata, come già visto, dalla circostanza che gli stessi devono essere osservati dal militare anche quando non ricorrano le condizioni previste dalla legge per l’applicazione del Regolamento di disciplina militare.
La violazione dei doveri attinenti al giuramento è una fattispecie espressamente elencata, al numero 1, dell’allegato “C” del Regolamento di disciplina militare; la stessa costituisce uno dei comportamenti che possono comportare l’irrogazione della consegna di rigore. Per la norma è sufficiente la semplice violazione dei doveri attinenti al giuramento, senza che la violazione medesima sia connotata da particolari indici di gravità, per poter procedere all’eventuale irrogazione della consegna di rigore. Più problematica è la distinzione tra violazione del giuramento e violazione dei doveri attinenti al giuramento, in considerazione del fatto che nel primo caso è anche irrogabile una sanzione disciplinare di stato, mentre la seconda ipotesi è sanzionabile sul piano disciplinare di corpo. In realtà, non esiste una netta differenza tra violazione del giuramento e violazione dei doveri attinenti al giuramento, poiché con il giuramento, come già visto, si assumono determinati obblighi e si attivano corrispondenti doveri che sono sostanzialmente specificati dalla norma di cui all’art. 9 R.D.M. Esistono, in effetti, significativi punti di contatto tra le due violazioni. Violare il giuramento significa violare il dovere di fedeltà alla Repubblica italiana, il dovere di osservanza della Costituzione e delle leggi, l’obbligo di adempimento, con disciplina ed onore, dei doveri inerenti al proprio stato giuridico, al fine di difendere la patria e le istituzioni democratiche. Violare i doveri attinenti al giuramento, ai sensi dell’art. 9 R.D.M., significa non mantenere l’impegno ad operare per l’assolvimento dei compiti istituzionali delle Forze armate, con le precise modalità stabilite dalla pertinente norma, in sostanza significa non osservare i doveri di fedeltà, lealtà e correttezza. è chiaro che, al di là delle formulazioni letterali, esiste un’area di sovrapposizione tra i due doveri, per cui sarà l’autorità militare competente a valutare disciplinarmente questa violazione e a decidere concretamente quale tipo di sanzione applicare in relazione - soprattutto - alla gravità della mancanza commessa. In questo campo la giurisprudenza amministrativa riconosce l’ampio potere discrezionale dell’autorità militare, ritenendo la valutazione della gravità della mancanza questione di merito insindacabile dal giudice amministrativo(11).
Qualora l’amministrazione militare ritenga di irrogare la perdita del grado per rimozione, allora, è opportuno che si valuti la gravità della sanzione, cioè il suo specifico contenuto sanzionatorio. In generale, la perdita del grado comporta che il militare al quale venga applicata, qualunque grado rivesta, ridiscenda nella posizione di soldato semplice o di comune di ultima classe, se appartenente alla Marina militare. La perdita del grado, quale ulteriore effetto giuridico ope legis, comporta altresì la cessazione dal servizio permanente o la cessazione da eventuali ferme o rafferme contratte, a seconda delle diverse posizioni di stato giuridico del militare(12). è evidente che, al di là della perdita della posizione gerarchica raggiunta con il grado conseguito nello svolgimento della carriera, la rimozione, come maggiore contenuto afflittivo, comporta la destituzione del militare che viene conseguentemente collocato in congedo(13). Per tali motivi la perdita del grado per rimozione, comportante il predetto effetto destitutorio, non potrà mai avvenire automaticamente, a seguito di una condanna penale, ma sarà sempre applicata dall’amministrazione militare competente attraverso uno specifico procedimento disciplinare di accertamento delle responsabilità(14). Per quanto riguarda i presupposti, dobbiamo rilevare che le leggi di stato giuridico sono abbastanza laconiche sul punto. In particolare, per quel che concerne le trasgressioni disciplinari che legittimano l’irrogazione di simile sanzione, le leggi di stato giuridico per gli ufficiali e i sottufficiali si riferiscono, come già visto, a “violazione del giuramento” o “altri motivi disciplinari”(15), mentre quella per gli appartenenti ai ruoli iniziali delle Forze di polizia ad ordinamento militare fa riferimento, oltre alle predette fattispecie, anche a un comportamento comunque contrario alle finalità dell’Arma (o del Corpo) o alle esigenze di sicurezza dello Stato(16). Al di là della violazione del giuramento, per quel che concerne gli “altri motivi disciplinari” è evidente che debba trattarsi di rilevanti trasgressioni alle regole della disciplina, la cui gravità consiglia l’adozione di una sanzione disciplinare di stato in luogo di una sanzione disciplinare di corpo, compresa la consegna di rigore. I comportamenti astrattamente meritevoli di una sanzione disciplinare di stato e, ancor più, della perdita del grado per rimozione, devono essere comunque più gravi di quelli per cui l’ordinamento militare prevede la possibilità di irrogare la consegna di rigore, per non vulnerare il principio di proporzionalità. A tale fine è rilevante anche la posizione soggettiva del militare e, in particolare, la connessione dei doveri del proprio stato con l’assolvimento dei compiti istituzionali, in relazione all’impegno assunto proprio con il giuramento. In tale quadro, l’integrare attività illecite di cui si ha il compito istituzionale di prevenire e reprimere la commissione, può ben costituire una violazione dell’impegno ad operare per l’assolvimento dei compiti istituzionali dell’organizzazione militare di appartenenza che viene assunto con il giuramento. Se, in questa ipotesi, è configurabile una fattispecie astratta di illecito disciplinare, è necessario - come sopra rilevato - che la stessa debba essere individuata come fattispecie concreta, soprattutto in relazione alla sua gravità, la quale può consigliare l’applicazione di una sanzione disciplinare di stato o, al contrario, può trovare ragionevole soddisfazione sul piano della disciplina di corpo.

4. L’assunzione di sostanze stupefacenti come violazione dei doveri disciplinari nella giurisprudenza amministrativa.

La valutazione circa la sufficienza dell’assunzione di sostanze stupefacenti da parte di un militare a configurare un illecito disciplinare grave, sanzionabile con la perdita del grado per rimozione, come già rilevato, è una problematica affrontata dalla giurisprudenza secondo angoli visuali differenti. In particolare, da una parte, è stato affermato che il comportamento in questione non può ritenersi di rilevanza tale da giustificare l’applicazione della massima sanzione di stato - quale la perdita del grado per rimozione - comportante la cessazione del rapporto di servizio. Più precisamente si è affermato che la contrarietà ai principi di moralità e di rettitudine, la violazione dei doveri attinenti al giuramento prestato e a quelli di correttezza ed esemplarità, se ben possono fondarsi sul comprovato abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti, non possono tuttavia trovare adeguata giustificazione in un unico ed isolato episodio di assunzione di tali sostanze. Questo assunto è ribadito soprattutto quando non è in alcun modo provata una maggior frequenza o familiarità dell’uso di tali sostanze e nella circostanza che il fatto in questione non abbia avuto alcuna ripercussione o collegamento con il servizio, né direttamente né indirettamente. La mancata connessione con il servizio, poi, non consentirebbe di affermare che con tale condotta si sia integrato il livello minimo di disvalore disciplinare che deve comunque connotare il fatto di assunzione di sostanze stupefacenti, soprattutto sotto il profilo dell’incidenza di tale condotta sulla prestazione del servizio e sull’adempimento dei doveri connessi all’ufficio(17). D’Altra parte, prevale un contrapposto indirizzo giurisprudenziale, espresso soprattutto dal Consiglio di Stato, il quale - argomentando in base al quadro normativo recato dal Testo unico del 1990 (d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309) - rileva come l’assunzione di sostanze stupefacenti sia indice della gravità del comportamento del militare, nella considerazione che, anche dopo la parziale abrogazione, ad opera del referendum del 18 aprile 1993, di alcune norme del predetto Testo unico, in base all’art. 75 d.P.R. n. 309/1990, l’assunzione di sostanze stupefacenti rimane illecito amministrativo. Il comportamento, poi, appare tanto più grave per un militare appartenente all’Arma dei carabinieri o al Corpo della Guardia di Finanza, il cui compito è di contrastare il commercio di sostanze stupefacenti, per cui il sindacato di legittimità sul giudizio operato dall’amministrazione militare deve, coerentemente, essere calibrato sui compiti specifici che questa attende e sulle attività istituzionali ad essa commesse (di rilievo quelle di polizia giudiziaria ordinaria e militare), senza invadere gli apprezzamenti di natura tecnico discrezionale a questo sottesi(18). In sostanza è l’indirizzo ribadito con la sentenza del Consiglio di Stato in commento. In definitiva, la valutazione della gravità di un comportamento ai fini disciplinari e della proporzione tra la sanzione disciplinare irrogata e la gravità dei fatti contestati, costituisce manifestazione del discrezionale apprezzamento dell’amministrazione, suscettibile di sindacato di legittimità solo per macroscopici vizi logici. Vizi logici che nella specie non sono ritenuti sussistenti, in relazione alla evidente violazione dei doveri di lealtà e correttezza che commette un appartenente alle forze di polizia ad ordinamento militare nel momento in cui fa uso, anche occasionalmente, di sostanze stupefacenti, “tradendo” l’impegno assunto con il giuramento di operare per l’assolvimento dei compiti istituzionali, che prevedono - tra l’altro - proprio l’attività di prevenzione e repressione in materia di stupefacenti.

Ten. Col. CC Fausto Bassetta



Carabinieri - Cessazione dal servizio - Scarso rendimento - Natura giuridica.

L’istituto della cessazione dal servizio per scarso rendimento non ha natura disciplinare, pertanto non è necessaria l’assistenza di un difensore e la partecipazione dell’interessato alle varie fasi del relativo procedimento può essere adeguatamente assicurata mediante la sua audizione davanti all’apposita commissione e la possibilità di presentare memorie e controdeduzioni.

T.A.R. Lazio - Roma, sez. I^ bis, sent. n. 6592/2006 (c.c.26 luglio 2006), Pres. De Lise, Est. Morabito, T. D. c. Ministero Difesa (1).

(1) Si legge quanto appresso in sentenza:
“Considerato che parte ricorrente - appuntato CC nei cui confronti è stata disposta la cessazione del servizio per scarso rendimento ai sensi degli artt. 12 e 17 della legge n.1168 del 1961 con provvedimento del 12.4.2006 - si è gravato avverso il provvedimento de quo deducendo:
a.che esso ricorrente nonostante ne avesse fatta richiesta non è stato ascoltato a rapporto dal generale comandante della Regione Lazio;
b. che, di seguito alla pronuncia della C.C.le n.240 del 1997, al procedimento preordinato all’adozione del provvedimento impugnato deve riconoscersi natura disciplinare e dunque prevedersi, ai fini della sua legittimità, la nomina di un difensore di fiducia ovvero d’ufficio al militare nei cui confronti si procede: adempimento questo che è rimasto, nel caso di specie, non rispettato;
Considerato che la possibilità di conferire con l’autorità indicata nell’art.39 del R.D.M. (che il ricorrente ha chiesto unicamente in occasione della notifica dell’ammonizione in data 17.9.2004 e che è stata, inizialmente, prevista per il 17.3.2006 e successivamente rinviata in attesa dell’esito dell’avviato procedimento di cessazione dal servizio per scarso rendimento) attiene ad Istituto estraneo al citato procedimento e giuridicamente inidoneo ad influire sulle sorti dello stesso;
Considerato che - contrariamente alla tesi attorea - la Corte Costituzionale con la pronuncia n.240 del 1997 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’articolo 17 con la lett. c) del secondo comma dell’art. 12 della legge n.1168 del 1961, nella parte in cui si prevede la dispensa dal servizio permanente del sottufficiale dei carabinieri per scarso rendimento senza la partecipazione dell’interessato al procedimento, senza intervenire sulla natura del procedimento in questione; mentre nel panorama giurisprudenziale amministrativo è stato affermato (Tar Lombardia n.2850 del 1998) e confermato (Cons.St., IV^, n.8313 del 2003) che il provvedimento adottato nei confronti del ricorrente non ha natura disciplinare (cfr., anche Cons. St., IV^, n.3561 del 2004) e rinviene nell’ordinamento generale amministrativo il suo parallelo nell’istituto della dispensa per scarso rendimento di cui all’art.129 del T.U. n.3 del 1957 le cui disposizioni costituiscono principi generali dell’ordinamento: di talché è da escludersi che la mancata nomina di un difensore di fiducia o d’ufficio spenda alcuna sulla legittimità del provvedimento impugnato che è stato preceduto da una fase procedimentale connotata dalla partecipazione dell’interessato che è stato sentito dalla Commissione di valutazione ed avanzamento ed ha ivi prospettato le proprie deduzioni difensive;
Considerato che nel caso di specie, essendosi rivelato manifestamente infondato il gravame e accertata la completezza del contraddittorio, sussistono i presupposti richiesti dall’art.9 della legge n. 205 del 2000 per la sua definizione con una decisione in forma semplificata;
Liquidate come da dispositivo le spese del presente giudizio;
P.Q.M.
Il T.a.r. del Lazio, sez. I^ bis, pronunciando ai sensi dell’art.9 della legge n.205 del 2000, respinge il ricorso”.

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(1) - Per un’ampia e dettagliata analisi del tema: V. Poli, Assunzione di sostanze stupefacenti, in I procedimenti amministrativi tipici e il diritto di accesso nelle Forze armate (a cura di V. Poli - V. Tenore), Milano, Giuffrè, 2002, 445 ss.
(2) - Per una più ampia ricognizione di norme afferenti le sostanze stupefacenti e psicotrope di interesse delle Forze armate: V. Poli, Assunzione di sostanze stupefacenti, cit., 448 ss.; A. Simoncelli, Disciplina, in L’ordinamento militare (a cura di V. Poli - V. Tenore), II, Milano, Giuffrè, 2006, 630 ss.
(3) - Cfr.: A. Simoncelli, Disciplina, cit., 638.
(4) - Sulle condizioni di applicabilità del Regolamento di disciplina militare e sul connesso concetto di capacità disciplinare: D. Brunelli, Art. 8 - Condizioni di applicabilità, in S. Riondato (a cura di), Il nuovo ordinamento disciplinare delle Forze armate, Padova, Cedam, 19952, 91 ss.
(5) - Sulla delimitazione giuridica della disciplina militare di corpo: E. Boursier Niutta - A. Esposito, Elementi di diritto disciplinare militare. Disciplina di corpo , Roma, Laurus Robuffo, 20043, 38 ss.
(6) - Sui doveri permanenti: D. Brunelli, Art. 8, cit., 100 ss.
(7) - Il militare, ai sensi dell’art. 36, comma 3, R.D.M., deve: astenersi dal compiere azioni o dal pronunciare imprecazioni, parole e discorsi non confacenti alla dignità e al decoro; prestare soccorso a chiunque versi in pericolo o abbisogni di aiuto; consegnare prontamente al superiore o alle autorità competenti denaro o cose che abbia trovato o che gli siano pervenute in errore; astenersi dagli eccessi nell’uso di bevande alcoliche ed evitare l’uso di sostanze che possano alterare l’equilibrio psichico; rispettare le religioni, i ministri del culto, le cose e i simboli sacri e astenersi, nei luoghi dedicati al culto, da azioni che possano costituire offesa al senso religioso dei partecipanti. Sul tema: F. Ufilugelli, Art. 36 - Contegno del militare, in S. Riondato (a cura di), Il Nuovo ordinamento disciplinare, cit., 265 ss.
(8) - Particolarmente critici su una ricostruzione interpretativa che, attraverso l’art. 10 R.D.M., consenta la possibilità di punire comportamenti privati: E. Boursier Niutta - A. Gentili, Codice di disciplina militare, Roma, Jasillo, 1991, 56. In senso ancor più drastico, si è anche affermato che “non rimane che prendere atto della singolare situazione venutasi a creare, per cui ai militari - i dipendenti dello Stato soggetti a più incisivi vincoli disciplinari - non sono applicabili sanzioni disciplinari di corpo per condotte irregolari nella vita privata …”: G. Mazzi, Art. 57- Infrazione disciplinare, in S. Riondato (a cura di), Il nuovo ordinamento disciplinare, cit., 378 ss. Per l’esatta comprensione della problematica, anche in relazione a spunti applicativi ed interpretativi di indubbio interesse: F. Caffio, Norme di comportamento del personale militare: aspetti etici e giuridici, in Informazioni Difesa, n. 6, 1994, 38 ss.
(9) - La legge n. 599/1954 è applicabile anche ai sottufficiali della Guardia di finanza in base all’art. 1, della legge 17 aprile 1957, n. 260, recante lo stato dei sottufficiali della Guardia di finanza.
(10) - Su questi doveri: M. G. Di Molfetta, Art. 9 - Doveri attinenti al giuramento, in S. Riondato (a cura di), Il Nuovo ordinamento disciplinare, cit., 103 ss.
(11) - Sulla violazione del dovere di fedeltà connesso con il giuramento prestato, vedi: T.A.R. Lazio, Sez. I-bis, sent. n.10954/2003 (c.c. 23 giugno 2003), Pres. Mastrocola, Est. Stanizzi. Sull’autonoma rilevanza disciplinare della violazione del giuramento prestato, vedi: Cons. Stato, Sez. IV, sent. n. 1319/2003 (c.c. 21 gennaio 2003), Pres. Salvatore, rel. Barberio Corsetti.
(12) - Autorevole dottrina ha sempre distinto tra il rapporto inerente al grado, qualificante lo stato di ufficiale, e il rapporto - eventuale - di impiego, definito “servizio permanente”: F. Breglia, Lo stato degli ufficiali dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica secondo la legge 10 aprile 1954, n. 113, Milano, Giuffrè, 5 ss. e 238 ss.
(13) - Bisogna sottolineare che l’effetto primario della perdita del grado per rimozione è il ridiscendere per intero la scala gerarchica dalla posizione sino allora acquisita a quella di base. L’effetto primario prescinde dalla circostanza che il militare di qualsiasi categoria e di qualsiasi grado sia in attività di servizio o sia in congedo. L’effetto ulteriore, che riguarda unicamente i militari in attività di servizio attivo (in servizio permanente, in ferma o in rafferma), è l’interruzione del rapporto di impiego o di servizio con conseguente collocazione in congedo. Non è corretto, allora, qualificare questa sanzione di stato come “rimozione dall’impiego”, come diretta traduzione nell’ordinamento militare della destituzione contemplata nel pubblico impiego civile. Per questo equivoco: A. Romeo - A. Bordignon, Le sanzioni disciplinari nei riguardi del personale militare ed il relativo procedimento amministrativo di accertamento, Padova, Cedam, 1999, 16 ss.
(14) - è bene precisare che esiste anche una rimozione, quale pena militare accessoria contemplata dall’art. 29 c.p.m.p., che consegue alla condanna per reclusione militare inflitta per durata superiore a tre anni. Questo tipo di rimozione comporta per il condannato la privazione perpetua del grado e lo fa discendere alla condizione di soldato semplice o di militare di ultima classe. In caso, quindi, di applicazione di questa pena accessoria, l’amministrazione è vincolata alle determinazioni del giudice penale che, in astratto, incidono esclusivamente sulla collocazione gerarchica del condannato, ma non comportano, di per sé, la cessazione dal servizio dello stesso (cfr.: Corte cost., sent. n. 363/1996). Quest’ultima, invece, è contemplata come effetto ulteriore della perdita del grado dalle varie leggi di stato giuridico dei militari, quindi può essere adottata esclusivamente a seguito di procedimento disciplinare instaurato dall’amministrazione competente. Sul punto: D. Brunelli - G. Mazzi, Diritto penale militare, Milano, Giuffrè, 19982, 177 ss.
(15) - Cfr.: artt. 70, 1° comma, numero 4, l. n. 113/1954 e 60, 1° comma, numero 6 l. n. 599/1954.
(16) - Cfr.: art. 34, 1° comma, numero 6, l. n. 1168/1961 (appuntati e carabinieri) e art. 40, comma 1, numero 6, l. n. 833/1961 (appuntati e finanzieri), così come modificati dalla l. n. 53/1989. Analogamente prevede l’art. 14-bis, comma 1, lett. e), d. lgs. n. 215/2001, relativo ai volontari di truppa in ferma.
(17) - Per questo filone giurisprudenziale, cfr.: T.A.R. Lazio, sez. I-bis, sent. n. 3021/2005 (c.c. 13 aprile 2005), Pres. Orciuolo, Est. Stanizzi; T.A.R. Lazio, sez. II, sent. n. 6309/2004 (c.c. 9 giugno 2004), Pres. La Medica, Est. Capuzzi; T.A.R. Lazio, sez. II, sent. n. 9980/2002 (c.c. 9 ottobre 2002), Pres. Giulia, Est. Giordano; T.A.R. Lazio, sez.II, sent. n. 13557/2004 (c.c. 20 ottobre 2004), Pres. ed Est. Capuzzi; T.A.R. Lazio, sez.II, sent. n. 1573/2005 (c.c. 12 gennaio 2005), Pres. La Medica, Est. Capuzzi; T.A.R. Lazio, sez. II, sent. n. 3171/2004 (c.c. 18 febbraio 2004), Pres. La Medica, Est. Riccio; T.A.R. Lazio, sez. I-bis, sent. n. 17184/2004 (c.c. 13 dicembre 2004), Pres. Mastrocola, Est. Morabito; T.A.R. Lazio,sez. II, sent. n. 3458/2002 (c.c. 24 marzo 2004), Pres. La Medica, Est. Riccio; T.A.R. Lazio, sez. II, sent. n. 7089(2004 (c.c. 7 aprile 2004), Pres. La Medica, Est. Sestini.
(18) - Si veda, in particolare: Cons. Stato, sez.IV, dec. 14 ottobre 2005, n. 5682 (c.c. 12 aprile 2005), Pres. Riccio, Est. Salvatore. Inoltre: Cons. Stato, sez. IV, dec. 7 giugno 2005, n. 2899 (c.c. 22 febbraio 2005), Pres. Salvatore, Est. Mollica; Cons. Stato, sez. IV, dec. n. 2259/2001 (c. c. 6 febbraio 2001), Pres. Trotta, Est. La Medica.


La natura giuridica dello scarso rendimento e le sue conseguenze

1. Premessa.

La recente pronuncia del TAR Lazio ripropone la questione della natura giuridica del provvedimento di cessazione dal servizio per scarso rendimento. Lo scarso rendimento è normativamente sistemato, nelle varie leggi di stato giuridico dei militari che lo contemplano, tra gli istituti che riguardano la cessazione dal servizio, essendo una causa tipica che può determinare l’interruzione del rapporto di impiego o di servizio del dipendente militare. La cessazione dal servizio per scarso rendimento è, quindi, un provvedimento unilaterale dell’amministrazione adottato per specifiche esigenze di autotutela che consegue ad una attività di valutazione del dipendente, protratta per un determinato periodo di tempo, il cui esito è un giudizio di insufficienza. Questo giudizio viene espresso in sede di documentazione caratteristica e costituisce il presupposto necessario (ma non sufficiente, poiché il militare interessato deve essere stato anche opportunamente ammonito), affinché l’amministrazione possa attivare un apposito procedimento di accertamento dello scarso rendimento, procedimento che può condurre all’emanazione di un provvedimento d’autorità di cessazione dal servizio. Le gravi conseguenze alle quali può portare un simile procedimento hanno da sempre indotto la giurisprudenza a verificare la corretta ed efficace partecipazione dell’interessato alle diverse fasi procedimentali. L’esigenza di tutela del destinatario del provvedimento finale è prepotentemente emersa anche a causa di una scarna disciplina normativa che, almeno sino alla legge 7 agosto 1990, n. 241, non assicurava all’interessato incisive garanzie di partecipazione e di contraddittorio. D’altra parte, i presupposti di questo particolare provvedimento di cessazione dal servizio d’autorità, cioè il protratto insufficiente rendimento in servizio, e il procedimento tipico di accertamento della fattispecie in argomento, non consentono di inquadrare lo scarso rendimento nella sfera del diritto disciplinare e, a maggior ragione, di considerare questo istituto una vera e propria sanzione disciplinare(1).
In realtà a complicare la sistemazione giuridica dello scarso rendimento è intervenuta un’attività di interpretazione giurisprudenziale della Corte costituzionale che più volte si è occupata dell’istituto de quo.

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(1) - Per ulteriori approfondimenti sia consentito rinviare a: F. Bassetta, L’istituto dello scarso rendimento in ambito militare, in Il Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, fasc. 1, 2005 (VIII), 224 ss. Si veda, inoltre: A. Baldanza, Ruoli e posizioni di stato, in L’ordinamento militare (a cura di V. Poli - V. Tenore), II, Milano, Giuffrè, 2006, 143 ss.
 
2. La giurisprudenza della Corte costituzionale.

Nel caso in esame il ricorrente lamenta proprio la mancata applicazione delle garanzie del procedimento disciplinare al procedimento preordinato all’adozione del provvedimento impugnato, al quale - secondo parte ricorrente - deve riconoscersi natura disciplinare e dunque prevedersi, ai fini della sua legittimità, la nomina di un difensore di fiducia ovvero d’ufficio al militare nei cui confronti si procede. Tale argomentazione fa leva su quanto deciso dalla Corte costituzionale con sentenza 18 luglio 1997, n. 240, relativa alla legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 12, 2° comma, lett. c) e dell’art. 17 della l. n. 1168/1961. La norma disciplina proprio l’istituto dello scarso rendimento per la categoria degli appuntati e carabinieri. Prima di procedere all’analisi della predetta sentenza è necessario ripercorrere brevemente gli orientamenti giurisprudenziali della Corte costituzionale in materia. In effetti, prima della sent. n. 240/1997, incontriamo la sentenza 5-14 aprile 1995, n. 126.
La Corte costituzionale è stata chiamata ad intervenire sul tema, poiché la giurisprudenza amministrativa più sensibile ha sempre sottolineato l’esistenza di un quadro normativo disarmonico, confrontando sul punto la legislazione sugli impiegati civili dello Stato con quella riguardante i militari, non più giustificabile sul piano della ragionevolezza e della sostanziale uguaglianza delle relative posizioni giuridiche soggettive. Una simile presa di posizione non poteva non comportare la sollevazione di questioni di legittimità costituzionale, puntualmente poste all’attenzione del Giudice delle leggi. In particolare, l’intervento della Corte è stato sollecitato con un’apposita ordinanza di un Tribunale Amministrativo Regionale, in merito alla non manifesta infondatezza della legittimità costituzionale dell’art. 33, legge 31 luglio 1954, n. 599 (norma che contempla l’istituto dello scarso rendimento per i sottufficiali), emersa in un giudizio riguardante un provvedimento di dispensa d’autorità per scarso rendimento, adottato dall’amministrazione della difesa nei confronti di un sottufficiale dipendente. La Corte, nel dichiarare fondata la questione e, quindi, l’illegittimità costituzionale dell’art. 33 l. n. 599/1954, nella parte in cui non prevede che al sottufficiale proposto per la dispensa dal servizio sia assegnato un termine per presentare, ove creda, le proprie osservazioni e sia data la possibilità di essere sentito personalmente (in sostanza, il profilo di incostituzionalità riguarda proprio la mancata estensione ai militari delle garanzie previste dall’art. 129, d.P.R. n. 3/1957, relativo agli impiegati civili dello Stato), argomenta la sentenza, prendendo anche spunto dell’entrata in vigore della l. n. 241/1990. Anche se l’illegittimità costituzionale della normativa di legge viene dichiarata per insanabile contrasto con i principi di ragionevolezza ed uguaglianza, introdotti dall’art. 3 Cost., e con il canone di buon andamento dell’amministrazione, di cui all’art. 97 Cost., non è senza significato il fatto che la Corte affermi che la discriminazione tra dipendenti civili e militari dello Stato, in merito all’istituto della dispensa (che in concreto si sostanzia nel deteriore trattamento di questi ultimi), sia venuta meno proprio in virtù della l. n. 241/1990. La sent. n. 126 del 1995 non rimane un caso isolato, ma viene seguita qualche anno più tardi proprio dalla sentenza n. 240 del 1997, che conclude un procedimento di legittimità costituzionale con il quale viene posta all’attenzione della Corte costituzionale un caso analogo. In questa occasione viene in discussione la legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 12, 2° comma, lett. c) e dell’art. 17 della l. n. 1168/1961 e le conclusioni sono le medesime della precedente sentenza, anche se nel dispositivo la Corte sintetizza dichiarando l’illegittimità della normativa in questione nella parte in cui prevede la dispensa dal servizio permanente per scarso rendimento senza la partecipazione dell’interessato al procedimento, definito esplicitamente “disciplinare”. In questa circostanza, la Corte ritiene violato il fondamentale canone di razionalità normativa, laddove vengano ancora previsti meccanismi di dispensa automatica dal servizio e, comunque, tali da non consentire la partecipazione dell’interessato al procedimento, vulnerando così le garanzie procedurali a presidio della difesa del destinatario dl provvedimento e ledendo il buon andamento dell’amministrazione militare sotto il profilo della migliore utilizzazione delle risorse professionali. In sostanza, le sentenze della Corte costituzionale danno precise indicazioni inerenti all’istituto dello scarso rendimento in ambito militare, con l’affermazione che il relativo procedimento amministrativo di accertamento ha natura disciplinare (sarebbe meglio parlare di natura paradisciplinare), prevedendo - perciò - necessariamente, la partecipazione in contraddittorio dell’interessato.

3. Le garanzie procedimentali.

Al di là della terminologia utilizzata, è chiaro che il problema principale rimane la corretta ed efficace partecipazione dell’interessato alle diverse fasi procedimentali, onde garantire che le ragioni del medesimo siano portate all’attenzione dell’autorità responsabile del procedimento e costituiscano valido elemento di ponderazione e di valutazione nella fase decisoria.
In tale contesto, in mancanza di una regolamentazione di dettaglio, per esaminare il procedimento di accertamento dello scarso rendimento risulta particolarmente utile far riferimento alla circolare n. DGPM/II/5/30001/C42 del 22 maggio 2000 della Direzione Generale per il Personale Militare del Ministero della difesa. La circolare in argomento è frutto non solo della necessità di dare concretezza alle disposizioni di legge in materia, con riguardo altresì alle disposizioni dettate dalla l. n. 241/1990, ma anche della necessità di acquisire e tradurre in un quadro organico e compiuto i principi giurisprudenziali, elaborati nel tempo, che hanno notevolmente contribuito a dare una certa fisionomia al procedimento amministrativo in questione e a scandirne i tempi e le fasi. Le disposizioni introdotte da una circolare amministrativa, come è noto, non hanno rilevanza esterna, ma assumono un particolare valore interno per un ordinamento gerarchico, poiché esprimono la volontà di autolimitazione del potere discrezionale e devono essere rigorosamente rispettate dagli organi dipendenti, costituendo precisi vincoli d’azione. Tenendo presente questa notazione, e la sua peculiare valenza in ambito amministrativo-militare, veniamo alle modalità di disciplina del procedimento con riguardo alla partecipazione dell’interessato. In particolare, il comando o ente che inoltra la proposta di scarso rendimento, in quanto - appunto - unità organizzativa responsabile, ha l’obbligo di dare comunicazione dell’avvio del procedimento al militare interessato, ai sensi degli artt. 7 e 8 l. n. 241/1990. è bene evidenziare che la comunicazione di avvio del procedimento non è assimilabile ad un atto di contestazione di mancanza disciplinare, poiché ha la finalità di dare notizia soltanto dell’oggetto del procedimento promosso e non anche dell’analitica esposizione dei fatti posti dall’amministrazione a base del procedimento; questi ultimi, infatti, possono essere adeguatamente conosciuti dall’interessato con lo strumento dell’accesso agli atti(2).
Dalla proposta, quale atto propulsivo del procedimento, decorrono i termini previsti per la conclusione dello stesso procedimento, fissati in un massimo di 180 giorni. Anche la fissazione di un termine costituisce una garanzia per il militare interessato, il quale non è esposto sine die ad una negativa valutazione del proprio operato. La proposta in argomento, corredata dai pareri gerarchici giunge sino alle commissioni di avanzamento che devono emettere un apposito parere in merito allo scarso rendimento del dipendente. La commissione di avanzamento, qualora ne venga fatta richiesta dall’interessato nel termine di 60 giorni dall’inizio del procedimento, sente direttamente quest’ultimo, che avrà un’ulteriore occasione per far valere la sue ragioni, potendo - comunque - entro 120 giorni dall’inizio del procedimento (o meglio, i due terzi del termine massimo di conclusione del procedimento) presentare proprie memorie e controdeduzioni relative alla proposta di scarso rendimento. Su questo punto, la circolare, recependo le indicazioni della giurisprudenza, ha configurato un tipo di procedimento amministrativo che ha la stessa fisionomia di quelli disciplinari, nei quali il destinatario del provvedimento finale ha ampie e garantite possibilità di far valere le proprie ragioni a difesa e, quindi, di intervenire fattivamente nel procedimento, partecipandovi e contribuendo alla definizione della fase decisoria. Ciò che non è previsto è la possibilità che il militare interessato possa farsi assistere da un difensore. Ed è proprio la mancanza di un difensore che viene contestata nel caso in esame e motivo posto a base della lamentata illegittimità del provvedimento impugnato.

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(2) - Cfr.: TAR Campania - Salerno, sez. I, sent. n. 1617 del 2002.

4. Il difensore nei procedimenti amministrativi tipici delle Forze armate e la sua necessità.

Nei procedimenti amministrativi tipici delle Forze armate, con particolare riguardo ai procedimenti disciplinari, la presenza di un difensore, scelto dall’interessato o nominato d’ufficio, non è assolutamente un dato connotativo. Si tenga, infatti, presente che il difensore non è previsto nel procedimento disciplinare di cui all’art. 59 R.D.M., procedimento necessario per l’eventuale irrogazione delle sanzioni di corpo del richiamo, del rimprovero e della consegna. Inoltre, non è prevista l’assistenza di un difensore nei procedimenti disciplinari di stato, relativamente alle fasi dell’inchiesta formale (sottufficiali) e dell’accertamento disciplinare (appuntati e carabinieri), fasi di per sé sufficienti per poter irrogare la sanzione di stato della sospensione disciplinare dall’impiego o dal servizio. Infine, non è prevista l’assistenza di un difensore nel procedimento disciplinare di stato riguardante gli ufficiali, non solo nella fase dell’inchiesta formale, ma anche nella fase dinanzi al consiglio di disciplina. Insomma, il difensore non è un dato indefettibile dei procedimenti disciplinari militari.
Si tenga, inoltre, presente che lo scarso rendimento si basa sostanzialmente su atti amministrativi che hanno di per sé autonoma valenza (ammonimenti, documenti caratteristici), oltre ai pareri gerarchici espressi da tutti i superiori dell’interessato e il parere finale della competente commissione d’avanzamento. In realtà, i pareri in argomento esprimono una valutazione di concordanza tra presupposti richiesti e provvedimento emanando, potendo influire concretamente soltanto in favore dell’interessato. Un parere di discordanza non consentirebbe al procedimento di proseguire oltre e comunque costituirebbe valido motivo ostativo per l’adozione di un provvedimento di scarso rendimento, poiché una valutazione in pejus dell’autorità competente alla decisione finale sarebbe difficilmente configurabile. D’altra parte, gli atti amministrativi prodromici al provvedimento di scarso rendimento, qualora giungano validamente a costituire presupposto del procedimento de quo, sono sicuramente atti definitivi (non è consigliabile attivare un procedimento di scarso rendimento in presenza di documenti caratteristici impugnati in sede di ricorso amministrativo o giurisdizionale). In sostanza, nel procedimento di scarso rendimento non si tratta di valutare la responsabilità di un militare in relazione ad un determinato comportamento, ma di verificare la sussistenza di tutti i presupposti di fatto e di diritto che giustificano l’adozione di un provvedimento di cessazione dal servizio d’autorità. Che il giudizio negativo sia già stato espresso in precedenza è circostanza facilmente desumibile dai documenti caratteristici posti a base dell’attivazione dello speciale procedimento e dall’attività di ammonizione del superiore gerarchico. D’altronde, la convocazione - peraltro sollecitata dall’interessato - dinanzi alla commissione di avanzamento non ha la finalità di consentire al militare di controbattere ad eventuali contestazioni (che d’altra parte non ci sono), ma soltanto di permettergli di rappresentare le ragioni a proprio favore e, di converso, di mettere in condizione la competente commissione di conoscere ed apprezzare ulteriormente il militare interessato, in modo da delineare - qualora ve ne fosse bisogno - un quadro ancor più completo della situazione soggettiva di quest’ultimo. Si tratta, in effetti, non di svolgere proprie considerazioni giuridiche in merito alla sussistenza o meno di fattispecie di diritto o di responsabilità, ma di allegare fatti concreti e, soprattutto, di manifestare propositi di maggior impegno e di ravvedimento. In tutto ciò e nella considerazione dell’economia generale del procedimento amministrativo de quo non si saprebbe quale ruolo assegnare ad un difensore e quale sia la sua utilità, se non quella di accompagnare l’interessato dinanzi alla competente commissione di disciplina e garantirgli un sostegno morale.

Ten. Col. CC Fausto Bassetta



Accertamenti preliminari - Constatazione della trasgressione disciplinare - Necessità.

Il superiore che rileva una mancanza disciplinare deve far constatare la stessa al trasgressore e qualora ciò non avvenga ben può ravvisarsi l’illegittimità di questa fase preliminare che si riverbera su tutti i successivi atti procedimentali, compreso il provvedimento finale.


Procedimento disciplinare - Sospensione - Condizioni necessarie - Preclusione possibilità di difesa - Legittimità.

Stante la perentorietà del termine di conclusione del procedimento disciplinare, quest’ultimo può essere interrotto o sospeso per periodi di convalescenza o di assenza legittima dal servizio, solo se tale condizioni precludono all’incolpato la possibilità di provvedere appieno alla sua difesa.


Provvedimento sanzionatorio - Motivazione - Indicazione dell’iter logico giuridico seguito - Necessità.

La motivazione del provvedimento deve contenere l’indicazione dell’iter logico giuridico seguito dall’amministrazione per giungere all’adozione dell’atto finale, con particolare riferimento agli elementi che sono stati ritenuti rilevanti e alle valutazioni espresse a fondamento della decisione.


Procedimento disciplinare - Termine a difesa - Eccessiva brevità - Violazione diritto di difesa - Sussistenza.

Il responsabile del procedimento che disattende una norma di procedura e concede un termine a difesa troppo breve realizza una violazione del diritto di difesa dell’incolpato, con conseguente illegittimità dell’intero procedimento.

T.A.R. Friuli Venezia Giulia, sent. 30 agosto 2006, n. 580 (c.c. 26 luglio2006), Pres. Borea, Est. Farina, D. F. c. Ministero Difesa.

Si legge quanto appresso in sentenza:
“Il ricorso è fondato.
Colgono nel segno le censure con le quali il ricorrente deduce la violazione dell’art. 58 del D.P.R. 18 luglio 1986, n. 54, dell’art. 1, comma 3 del D.M. 8 agosto 1996, n. 690 ed il difetto di motivazione.
E’ d’uopo prendere le mosse dal quadro normativo di riferimento.
Il D.P.R. 18 luglio 1986, n. 545 (recante la: ”Approvazione del regolamento di disciplina militare, ai sensi dell’art. 5, primo comma, della legge 11 luglio 1978, n. 382) stabilisce, all’art. 57 (Infrazione disciplinare) che: “1. Costituisce infrazione disciplinare punibile con una delle sanzioni disciplinari di corpo, salva l’applicabilità di una sanzione disciplinare prevista dalla legge di Stato, ogni violazione dei doveri del servizio e della disciplina indicati dalla legge, dai regolamenti militari, o conseguenti all’emanazione di un ordine. 2. Nel rilevare l’infrazione il superiore deve attenersi alla procedura di cui al successivo art. 58”.
Il menzionato art. 58 (Procedura da seguire nel rilevare l’infrazione), così recita: “1. Ogni superiore che rilevi l’infrazione disciplinare, per la quale non sia egli stesso competente ad infliggere la sanzione, deve far constatare la mancanza al trasgressore, procedere alla sua identificazione e fare rapporto senza ritardo allo scopo di consentire una tempestiva instaurazione del procedimento disciplinare. 2. Il rapporto deve indicare con chiarezza e concisione ogni elemento di fatto obiettivo, utile a configurare esattamente l’infrazione. Il rapporto non deve contenere proposte relative alla specie ed alla entità della sanzione.
3. Se il superiore che ha rilevato l’infrazione ed il militare che l’ha commessa appartengono allo stesso corpo, il rapporto è inviato:
a) direttamente al comandante di reparto, se comune ad entrambi i militari;
b) per via gerarchica al comandante del corpo, se trattasi di militare di altro reparto.
4. Per il personale imbarcato il rapporto viene inviato al comando della nave.
5. Negli altri casi il superiore, tramite il proprio comando di corpo o ente, invia il rapporto al comando di corpo da cui il trasgressore dipende; qualora egli si trovi fuori dalla propria sede il rapporto deve essere presentato, per l’inoltro, al locale comando presidio...”.
Come si è visto, il comma 1 dell’ art. 58 dispone che “1. Ogni superiore che rilevi l’infrazione disciplinare, per la quale non sia egli stesso competente ad infliggere la sanzione, deve far constatare la mancanza al trasgressore, procedere alla sua identificazione e fare rapporto senza ritardo allo scopo di consentire una tempestiva instaurazione del procedimento disciplinare”.
Nel caso di cui alla attuale controversia, l’infrazione disciplinare è stata rilevata dal Comandante Provinciale dei Carabinieri di ..., che aveva effettuato la ispezione nella sede della Banca d’Italia, cioè dall’ organo non competente ad infliggere la sanzione (che è stata, poi, inflitta dall’organo competente, cioè dal Comandante della Compagnia Carabinieri di ...): pertanto, il Comandante Provinciale dei Carabinieri di ...avrebbe dovuto far constatare, a mente del citato art. 58, la mancanza al trasgressore.
Ciò non è avvenuto e tanto basta per ravvisare l’illegittimità di questa fase preliminare del procedimento disciplinare, che si riverbera su tutti i successivi atti procedimentali - compreso il provvedimento finale - inficiandoli.
Inutile dire della inconsistenza della tesi esposta dalla resistente Amministrazione in sede di ricorso gerarchico, per cui il Comandante Provinciale dei Carabinieri di ...non avrebbe fatto constatare la mancanza al trasgressore, non essendo egli a conoscenza di eventuali provvedimenti che avessero autorizzato il D. a non indossare la divisa: la mancanza, infatti, era immediatamente riscontrabile, eppertanto era obbligo del superiore procedere in forza del prefato art. 58. La sussistenza di eventuali provvedimenti che autorizzassero il ricorrente a non indossare la divisa era infatti circostanza che poteva essere acclarata anche in un momento successivo; quel che rileva, però, è che l’incertezza sull’esistenza di detti provvedimenti non poteva certamente legittimare l’omissione in parola, che ha piuttosto arrecato un evidente nocumento alle guarentigie difensive del D., di fatto impossibilitato a spiegare un’autonoma difesa delle proprie ragioni nel momento stesso della commissione del presunto illecito disciplinare.
Sotto altro profilo, merita condivisione il rilievo attoreo incentrato sull’elusione del termine massimo di novanta giorni per la conclusione del procedimento disciplinare, stabilito dall’art. 1, comma 3 del D.M. 8 agosto 1996, n. 690.
La giurisprudenza ha chiarito che il suddetto termine è da ritenersi perentorio (Cfr., ex pluribus, Csi, 2 marzo 1991, n. 62 e Cons. St., IV, 18 settembre 1991, n. 726) e - ritiene il Collegio - può essere interrotto o sospeso per periodi di convalescenza o di assenza legittima dal servizio, se tali condizioni precludono all’incolpato la possibilità di provvedere appieno alla sua difesa (Cfr., sul punto, T.A.R. Toscana, 7 aprile 2003, n. 1301 e T.A.R. Sardegna, 24 gennaio 2000, n. 71).
Nel caso di specie non risulta - e il provvedimento finale nulla dice in proposito - che ricorressero le suddette condizioni ostative.
Di qui - anche - una insufficienza motivazionale che inficia il provvedimento conclusivo.
è d’uopo precisare che il termine di novanta giorni per la conclusione del procedimento disciplinare è evidentemente posto a salvaguardia della certezza del diritto ed a tutela del dipendente assoggettato ad una procedura che può condurre ad esiti sfavorevoli per la propria posizione giuridica.
Ne discende che la durata del procedimento de quo non rientra nella disponibilità dell’Autorità procedente, non potendo quest’ultima sospendere l’iter procedurale se non in ragione di un’acclarata impossibilità del dipendente a parteciparvi o per cause espressamente indicate dalla legge (cfr. Cons. St., IV, 18 settembre 1991, n. 726).
Orbene, nel caso di specie il Collegio non ravvisa ragione per discostarsi dall’orientamento richiamato; ne consegue che è da ravvisarsi la violazione del termine fissato dal summenzionato art. 1, comma 3 del D.M. 8 agosto 1996, n. 690: infatti, il procedimento disciplinare ha preso l’abbrivio con la contestazione degli addebiti di cui alla comunicazione del 11.11.2002 e si è concluso con l’irrogazione della sanzione disciplinare, quivi avversata, del 18.2.2003, allorquando era ormai spirato il termine di novanta giorni imposto dalla normativa vigente.
Non osta a tale conclusione la circostanza che l’Amministrazione abbia sospeso il procedimento disciplinare nel periodo di convalescenza dell’incolpato (17.1.2003-30.1.2003), ed abbia, pertanto, ritenuto che il termine di conclusione del procedimento fosse conseguentemente differito.
Come si è detto, il termine in parola è posto a tutela della posizione dell’incolpato e può essere ragionevolmente sospeso allorché quest’ultimo versi nell’impossibilità materiale di partecipare al procedimento che lo interessi e di tutelare le proprie ragioni.
Nel caso che ci occupa, invece, la patologia da cui era affetto il D. non escludeva la possibilità di una sua attiva partecipazione all’iter procedimentale, potendo comunque egli comunicare “a distanza” con l’Autorità procedente, mediante produzione di memorie scritte o documenti.
Illegittimamente, quindi, l’Amministrazione ha disposto la sospensione del procedimento, in assenza di una causa che autorizzasse la sospensione, né, tampoco, ha dato atto di questa causa in sede di riscontri provvedimentali.
Oltre alle evidenti violazioni di norme procedimentali, il provvedimento gravato non appare immune nemmeno dalle denunciate carenze motivazionali.
Invero, come correttamente osservato dalla difesa del ricorrente, nel provvedimento finale non v’è traccia dell’iter logico-giuridico seguito dall’Amministrazione, essendosi limitata l’Autorità procedente a dichiarare di aver ritenuto equo comminare la predetta sanzione in ragione del comportamento dell’incolpato, contrario all’art. 63 del Regolamento Generale dell’Arma dei Carabinieri.
è evidente che il potere di irrogare sanzioni disciplinari è espressione di valutazioni caratterizzate da ampia discrezionalità ed è legittimamente esercitato allorché sia sorretto da un solido apparato giustificativo; in particolare, il referto motivazionale deve rendere pienamente intelligibile l’iter logico seguito dall’Autorità procedente ed indicare gli elementi di fatto e di diritto ritenuti rilevanti per la determinazione finale, in ossequio ai principi, elaborati prima da giurisprudenza e dottrina, che hanno poi trovato puntuale codificazione nell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241.
Nella fattispecie la sanzione disciplinare, il cui contenuto, secondo quanto dichiarato dall’Autorità procedente, troverebbe fondamento in valutazioni di natura equitativa, non reca però alcun riferimento agli elementi che sono stati ritenuti rilevanti, né al procedimento logico che avrebbe condotto ad una determinazione di stampo equitativo; né, tampoco, in assenza di qualsiasi indicazione delle circostanze ritenute favorevoli alla posizione del ricorrente, si è resa così possibile una qualsiasi delibazione sulla conformità della soluzione adottata ai canoni di ragionevolezza e proporzionalità.
Tanto basta per affermare il difetto di motivazione del provvedimento finale.
A rigore, coglie, altresì, nel segno la censura incentrata sulla circostanza che al ricorrente è stato assegnato un termine a difesa di appena quattordici giorni, quando, ai sensi dell’art. 6 del D.M. 8 agosto 1996, n. 690 (”Regolamento recante disposizioni di attuazione degli articoli 2 e 4 della L. 7 agosto 1990, n. 241, nell’ambito degli enti, dei distaccamenti, dei reparti dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica nonché di quelli a carattere Interforze”) l’Autorità procedente, cioè il Comandante della Compagnia Carabinieri di ..., gli avrebbe dovuto assegnare un termine di almeno sessanta giorni.
Il citato art. 6 (Partecipazione al procedimento: visione degli atti; atti di intervento) dispone, al comma 2, che: “2. I soggetti che hanno titolo a prendere parte al procedimento, ai sensi degli articoli 7 e 9 della legge, possono presentare memorie scritte e documenti, entro un termine pari a due terzi di quello stabilito per la durata del procedimento, sempre che questo non sia già concluso. […]”.
Il termine “stabilito per la durata del procedimento” è quello di novanta giorni fissato dall’art. 1, comma 3 del D.M. n. 690 del 1996.
Nel caso di specie, con la contestazione degli addebiti di cui al foglio n. 244/2 di prot. in data 11.11.2002, il Comandante della Compagnia Carabinieri di ..., rappresentava all’incolpato la possibilità di produrre eventuali “memorie difensive scritte ovvero orali” in occasione del rapporto fissato con il Comandante per il giorno 25.11.2002, oppure in una data successiva, stabilita lo stesso giorno del rapporto, “nel caso in cui tali memorie non fossero pronte” per quella data.
Come si vede, il Comandante ha formalmente disatteso il disposto dell’art. 6, comma 2 del D.M. n. 690 del 1996, posto che - di fatto - ha assegnato all’incolpato un termine di soli quattordici giorni, concretando così una violazione del diritto di difesa dell’incolpato, tutelato dalla normativa vigente.
Va, in ogni caso, doverosamente riconosciuto che la violazione in parola non si è tradotta in una lesione effettiva delle garanzie difensive del ricorrente, atteso che il procedimento amministrativo si è concluso, come sopra ricordato, il 18.2.2003, e nulla vietava al D. di presentare comunque, in tale torno temporale, memorie ed osservazioni all’Autorità procedente.
In conclusione, per le complessive considerazioni che precedono - assorbiti gli altri mezzi - il ricorso va accolto ed i provvedimenti impugnati vanno conseguentemente annullati”.

Su alcune questioni controverse del procedimento disciplinare

1. Premessa.

La sentenza del T.A.R. Friuli Venezia Giulia, n. 580/2006, pone all’attenzione dell’interprete alcune interessanti questioni che riguardano lo svolgimento del procedimento disciplinare militare. L’occasione è propizia per uno sguardo d’insieme sui principi che regolano questo particolare procedimento amministrativo, le sue speciali regole e le finalità alle quali è preposto. Prima ancora, conviene accennare al tema del contendere ed illustrare sinteticamente il concreto svolgimento del procedimento de quo. Il giudizio amministrativo trae origine dal ricorso giurisdizionale presentato da un militare, dopo il non favorevole esito di quello gerarchico, avverso la sanzione disciplinare di corpo del rimprovero scritto. In particolare al militare venivano formulate precise contestazioni in data 11.11.2002, per una mancanza commessa il precedente 19.10.2002(1), e veniva invitato a recarsi a rapporto il 25.11.2002 per chiarire la vicenda e produrre eventuali memorie difensive, scritte od orali. Nella circostanza l’autorità procedente si riservava di stabilire un termine entro il quale ammettere l’incolpato a produrre ulteriori giustificazioni, ma non risulta dagli atti che questo stesso termine sia stato in qualche modo indicato. Successivamente, e prima della conclusione del procedimento disciplinare, il militare in questione veniva collocato in licenza di convalescenza dal 17.01.2003 al 30.01.2003, pertanto il responsabile del procedimento comunicava all’interessato di aver disposto la sospensione dello stesso per il periodo in questione. Infine, il 18.02.2003, a riacquisita idoneità fisica dell’interessato, veniva irrogata allo stesso la sanzione disciplinare di corpo del rimprovero scritto, ritenuta equa in ragione del comportamento tenuto dal manchevole.
Il militare punito impugna il provvedimento sanzionatorio, deducendo alcuni vizi di legittimità, tra i quali trovano fondamento, a giudizio del T.A.R. Friuli Venezia Giulia, la violazione delle norme di cui all’art. 58 R.D.M. (d.P.R. 18 luglio 1986, n. 545), di cui all’art. 1, comma 3, d. m. 8 agosto 1996, n. 690 (recante il regolamento di attuazione della normativa sui termini del procedimento, in relazione agli enti periferici dell’amministrazione della difesa), e il difetto di motivazione. Interessanti anche le considerazioni del T.A.R. concernenti il diritto alla difesa, con particolare riguardo alle disposizioni dettate dall’art. 6, d. m. n. 690/1996.

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(1) - La mancanza sarebbe consistita nell’espletamento del servizio in abiti civili, in violazione della norma sull’autorizzazione a vestire l’abito civile in servizio, stabilita dall’art. 63 del Regolamento Generale dell’Arma dei Carabinieri. La stessa è stata accertata da altro superiore dell’incolpato che ha riferito il fatto all’autorità competente mediante rapporto disciplinare.

2. La constatazione della mancanza disciplinare.

Per quanto concerne la violazione dell’art. 58 R.D.M., il T.A.R., nell’accertare che il superiore che ha rilevato l’infrazione disciplinare non ha proceduto a far constatare la mancanza all’interessato, ha ravvisato in questo difetto procedurale un sintomo sufficiente per affermare l’illegittimità di questa fase, con il conseguente negativo riverbero sulle fasi successive. Sul punto l’assunto del giudice amministrativo non sembra pienamente condivisibile. Ma procediamo con ordine, vediamo innanzitutto la portata e la finalità della norma di cui all’art. 58 R.D.M., con riguardo agli obblighi del superiore che rilevi una mancanza disciplinare, per la quale non sia egli stesso competente ad instaurare il relativo procedimento disciplinare.
In base alla espressa enunciazione dell’art. 58 R.D.M., il superiore che rilevi la commissione di una mancanza disciplinare per la quale sia incompetente ad infliggere le relativa sanzione deve procedere secondo precise modalità. In particolare, ai sensi dell’art. 58, comma 1, R.D.M., deve:
- far rilevare la mancanza all’interessato;
- procedere alla sua identificazione, qualora quest’ultimo non sia conosciuto;
- infine, redigere ed inoltrare il rapporto disciplinare senza ritardo, allo scopo di consentire una tempestiva instaurazione del procedimento disciplinare.
Per quanto riguarda il primo adempimento, cioè il far constatare la mancanza al trasgressore, nonostante qualche affinità lessicale (più fonica che logica) con l’obbligo delle contestazioni, con le quali il superiore titolare della potestà sanzionatoria instaura un procedimento disciplinare, dobbiamo decisamente affermare che con la constatazione e con la contestazione siamo su due piani strutturalmente differenti. In sostanza, la norma di cui all’art. 58 R.D.M. prevede che il militare manchevole deve essere immediatamente reso edotto dell’infrazione da lui commessa, non solo (e non tanto) in funzione di garanzia procedimentale, rendendolo partecipe di un accertamento disciplinare nei suoi confronti(2), ma soprattutto per stabilire (o meglio per ribadire) un obbligo di intervento immediato da parte di qualsiasi superiore in presenza di un’infrazione disciplinare. La fase di accertamento di una infrazione disciplinare può anche prescindere da un diretto ed immediato confronto con l’interessato, perché l’autorità militare può venire a conoscenza di infrazioni disciplinari avvenute non alla sua presenza, ma di cui si ha contezza attraverso modalità differenti dalla percezione diretta o dal rapporto disciplinare(3).
Ciò sta a significare che tra le attività procedimentali, che portano alla comminazione di una sanzione disciplinare, quelle contemplate dall’art. 58, comma 1, R.D.M., sono meramente eventuali e più che alla validità e regolarità procedurale attengono ai doveri propri di superiori gerarchici.
Infatti, se il superiore gerarchico ha tra gli altri doveri quello di curare il rispetto e l’osservanza delle regole disciplinari(4), in caso di illecito disciplinare, commesso alla sua presenza, o comunque nel suo ambito di percezione sensoriale, è evidente che debba intervenire non solo per rilevare, ma anche - eventualmente - per interrompere il comportamento illecito od evitare che lo stesso possa condurre a violazioni più gravi.
L’obbligo di far constatare la mancanza, allora, è una norma di garanzia dell’ordinamento militare, non uno strumento di garanzia dell’incolpato, e il mancato rispetto dello stesso non può riverberarsi negativamente sul procedimento disciplinare, ma semmai può comportare responsabilità disciplinari per chi ha disatteso il precetto normativo.
Il punto è particolarmente importante, proprio per evitare confusione tra diverse fasi del procedimento. In particolare, la fase preliminare al procedimento disciplinare vero e proprio, il quale inizia con le contestazioni degli addebiti(5), è finalizzata all’accertamento del fatto storico, al di là della sua valutazione e qualificazione normativa(6).
A tal fine, il superiore che rileva un’infrazione e non è competente ad irrogare la relativa sanzione, nel riferire quanto verificato direttamente, deve indicare esclusivamente ogni elemento di fatto obiettivo, utile a configurare esattamente l’infrazione, senza formulare proposte relative alla specie ed all’entità della sanzione(7).
Quel superiore, cioè, non può formulare alcun tipo di valutazione che non sia riferibile al fatto storico.
Allora, il volere quasi anticipare alcune fasi del procedimento disciplinare all’atto dell’accertamento della mancanza, quando non si ha competenza a contestare alcun addebito disciplinare, appare una forzatura della lettura del testo regolamentare.
In sostanza, non può condividersi l’affermazione contenuta nella sentenza secondo la quale l’omissione in argomento “ha piuttosto arrecato un evidente nocumento alle guarentigie difensive del D., di fatto impossibilitato a spiegare un’autonoma difesa delle proprie ragioni nel momento stesso della commissione del presunto illecito disciplinare”.
Innanzitutto, il superiore che ha rilevato la mancanza non era competente a valutare la responsabilità disciplinare dell’interessato (in caso contrario l’art. 58 R.D.M. non trovava applicazione), quindi non poteva legittimamente “contestare” e così instaurare un vero e proprio procedimento disciplinare(8). In secondo luogo, le garanzie difensive non sono state violate, come affermato nella stessa sentenza in un passo successivo, secondo una corretta valutazione sostanzialistica, di cui - invece - non si ha traccia in questa parte motiva. In effetti, se, come si è riconosciuto, l’interessato ha avuto comunque la possibilità di produrre memorie ed osservazioni, quindi di esporre le proprie ragioni difensive, prima dell’adozione del provvedimento sfavorevole, non si capisce quale sia stato l’“evidente nocumento alle guarentigie difensive” conseguente all’omissione del superiore che ha rilevato l’infrazione. Il non aver fatto constatare la mancanza all’interessato, nulla toglie alla validità degli atti successivi e certamente non costituisce motivo di grave e irreparabile nocumento alle ragioni difensive di quest’ultimo, semmai - come già notato - potrebbe rappresentare il sintomo di una carente azione di controllo disciplinare del superiore che ha rilevato la mancanza; ma questa è un’altra storia, di cui si può solo ipotizzare un’autonoma rilevanza disciplinare.

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(2) - Questo aspetto risulta estremamente enfatizzato da chi coglie nell’obbligo di far constatare la mancanza al trasgressore una duplice finalità, quella di consentire a quest’ultimo di predisporre la propria difesa e quella di consentire una migliore valutazione sulla sussistenza di un infrazione disciplinare rilevata dal superiore, a seguito di tempestive valide giustificazioni fornite dall’incolpato: G. Mazzi, Art. 58. Procedura da seguire nel rilevare l’infrazione, in Il nuovo ordinamento disciplinare delle Forze armate (a cura di S. Riondato), Padova, Cedam, 19952, 382.
(3) - È stato osservato come tra le diverse modalità attraverso le quali l’autorità competente può venire a conoscenza della commissione di un’infrazione disciplinare esistano quelle dell’acquisizione mediata e dell’acquisizione a seguito di denuncia: E. Boursier Niutta - A. Esposito, Elementi di diritto disciplinare militare. La disciplina di corpo, Roma, Laurus Robuffo, 20043, 130 ss.. Entrambe le modalità presuppongono che l’infrazione disciplinare sia commessa al di fuori dell’ambito di percezione di un superiore gerarchico, per cui viene meno l’intera fase contemplata dall’art. 58, comma 1, R.D.M. e, in particolare, non può avere in alcun modo luogo la possibilità di far constatare la mancanza al trasgressore.
(4) - Lo specifico dovere è contemplato dall’art. 21, comma 2, R.D.M., dove viene stabilito che il superiore deve mantenere salda la disciplina dei militari dipendenti.
(5) - Cfr.: P. Iovino - M. Mormando, Sanzioni disciplinari di corpo: l’esame di legittimità in sede contenziosa, in Riv. G.d.F., n. 2, 2005, 434 ss; S. Bruno, Il termine per gli accertamenti preliminari prodromici al procedimento disciplinare militare di corpo, in Rass. Arma CC., n. 1, gennaio-marzo 2003 (LI), 29 ss.; S. Russo, Modalità di avvio del procedimento disciplinare militare, in Diritto Militare, n. 1, 2001, 5 ss.
(6) - È stato correttamente osservato che “[q]uando si parla di accertamento del fatto, dunque, si fa riferimento all’accertamento del fatto storico, del comportamento cioè percepibile dai sensi. Il corretto inquadramento normativo di quel determinato fatto, è attività spettante all’autorità competente a valutare il fatto e non all’accertatore, […] accertare un fatto significa dare per certo l’accadimento di quel fatto storico, a prescindere dalla sua valutazione e qualificazione normativa, quindi un fatto è accertato quando chi ne ha l’autorità afferma la sua sussistenza o per averlo vissuto de visu, cioè direttamente, o per averlo verificato attraverso un’istruttoria che abbia portato in modo univoco e inequivocabile alla sua ricostruzione”: E. Boursier Niutta - A. Esposito, Elementi di diritto disciplinare militare, cit., 129.
(7) - Cfr.: art. 58, comma 2, R.D.M.
(8) - È stato acutamente osservato come “[i]n sostanza tale istituto prevede che il superiore incompetente partecipi al militare che egli ha rilevato il fatto commesso dal subordinato, senza tuttavia che ne chieda contezza. Non prevede, cioè, che egli chieda al militare giustificazione del fatto rilevato, né che questi si giustifichi davanti a lui del fatto commesso. Anzi, a ben vedere, la richiesta di giustificazioni porterebbe il dipendente a ritenere instaurato il procedimento e, poiché l’unica competenza disciplinare riconosciuta ad un superiore che non sia comandante di corpo o di reparto è quella relativa all’inflizione del richiamo, una volta prodotte le giustificazioni quel militare potrebbe (al massimo) ritenersi (a ragione) punito con tale sanzione, con evidenti problemi connessi ad un’eventuale ulteriore contestazione del comandante di corpo o di reparto.”: E. Boursier Niutta - A. Esposito, Elementi di diritto disciplinare militare, cit., 133. D’altra parte, chi sottolinea come l’istituto della constatazione della mancanza sia previsto per consentire all’incolpato di predisporre la propria difesa e per una migliore valutazione sulla sussistenza di una infrazione disciplinare, sembra contraddirsi quando - correttamente - afferma che il superiore, “nel rilevare l’infrazione, non è competente ad esprimere un vero e proprio giudizio sulla presenza o meno di una violazione disciplinare: dovrà invece procedere all’accertamento anche quando vi siano fondati sospetti sulla configurabilità come illecito disciplinare di una determinata condotta”: G. Mazzi, Art. 58. Procedura da seguire nel rilevare l’infrazione, cit., 382.

3. La sospensione del procedimento disciplinare.

Altra importante questione esaminata dal giudice amministrativo è quella della possibilità di sospendere il procedimento disciplinare in presenza di un legittimo impedimento dell’incolpato.
L’argomentazione del T.A.R. Friuli Venezia Giulia si sviluppa partendo dall’asserita elusione del termine massimo di novanta giorni stabilito per la conclusione del procedimento disciplinare di corpo. In particolare, viene affermato che il termine di 90 giorni deve intendersi come termine perentorio, in base ad un orientamento giurisprudenziale, per nulla prevalente(9). In tale contesto, i predetti termini possono essere interrotti o sospesi solo quando si verifichino condizioni tali da precludere all’incolpato la possibilità di provvedere alla sua difesa. Tra le condizioni in argomento potrebbero essere rilevanti anche quelle che attengono allo stato di salute dell’incolpato. In generale, l’inidoneità al servizio militare incondizionato del trasgressore non impedisce l’espletamento a suo carico di un procedimento disciplinare. L’impossibilità di convocare il trasgressore o la circostanza che lo stesso non possa essere sempre presente nelle varie attività istruttorie non sono motivi ostativi alla prosecuzione del procedimento disciplinare che può benissimo svolgersi attraverso atti scritti scambiati tra il responsabile del procedimento e l’interessato, inviati anche per posta. La stessa presenza dell’interessato prevista nei procedimenti davanti al comandante di corpo o alle commissioni o consigli di disciplina (per il procedimento disciplinare di stato) può essere soddisfatta con atto di delega nei confronti del difensore o di altro militare o, qualora il militare voglia comunque presenziare, con opportuni accorgimenti a salvaguardia della salute dello stesso (trasporto in ambulanza, presenza di ufficiale medico e quant’altro risulti adeguato alle esigenze), anche mediante la sua convocazione presso un comando militare più agevolmente raggiungibile, in relazione alle sue esigenze residenziali. L’unica eccezione è rappresentata da una patologia che menomi la sfera psichica del trasgressore a tal punto da impedirgli di formulare giustificazioni (quindi, di intendere gli addebiti). In tal caso il procedimento disciplinare deve essere sospeso in ossequio al principio dell’incomprimibilità del diritto alla difesa. Il procedimento riprenderà, e riprenderanno a decorrere i termini, dal momento in cui il militare avrà la piena disponibilità delle sue capacità psichiche (per questo momento vedi anche gli obblighi di cui all’art. 52 R.D.M.)(10). Per tale motivo non può ritenersi sufficiente, come nel caso in esame, un qualunque stato d’infermità che comporti la temporanea inidoneità del dipendente al servizio militare incondizionato e, comunque, l’allegazione dell’eventuale sussistenza di uno stato psico-fisico tale da impedire all’interessato la percezione della gravità del comportamento addebitato, quindi, la possibilità di esperire una valida ed efficace difesa, è onere della parte(11).
In tale quadro, una sospensione del procedimento disciplinare per un qualsiasi periodo di convalescenza o di assenza legittima dal servizio appare irragionevole nell’economia generale del procedimento e in relazione alla necessità di tutelare la posizione dell’incolpato, per la quale vengono anche posti i termini procedimentali. Qualora l’incolpato abbia comunque la possibilità di partecipare al procedimento, anche mediante comunicazioni a distanza, la sospensione del procedimento disciplinare che comporti il superamento del termine massimo di conclusione dello stesso (come peraltro avvenuto in questo caso) ben può apparire una causa di illegittimità idonea ad inficiare gli atti successivi e lo stesso provvedimento finale.
 
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(9) - Sul punto, è stato opportunamente rilevato come la recente e prevalente giurisprudenza ritiene i termini di natura ordinatoria e non perentoria: A. Simoncelli, Disciplina, in L’ordinamento militare (a cura di V. Poli - V. Tenore), II, Milano, Giuffrè, 2006, 720 ss.
(10) - Sulla tematica: P. Burla - G. Fraccastoro - C. Scarselletta, La sospensione del procedimento disciplinare secondo le regole dettate dal legislatore e dalla giurisprudenza amministrativa, in Riv. G.d.F., n. 4, 2004, 1264 ss.
(11) - Sul punto: A. Simoncelli, Disciplina, cit., 737 ss.

4. La motivazione della sanzione disciplinare.

In tema di motivazione il giudice amministrativo rileva la mancata esplicazione nel provvedimento finale dell’iter logico-giuridico seguito dall’amministrazione per irrogare la sanzione disciplinare. In tale senso, il T.A.R. Friuli Venezia Giulia ha ritenuto fondata la censura di difetto di motivazione, configurabile come vizio di violazione di legge, in quanto, seppur la motivazione sia esistente, la stessa non evidenzierebbe, come espressamente richiesto dall’art. 3, l. n. 241/1990, le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione(12). Dalla lettura della sentenza non è dato sapere esattamente la formulazione della motivazione del provvedimento sanzionatorio, stante il sommario riferimento contenuto nella parte motiva, dove si afferma la sussistenza del vizio di difetto di motivazione, “essendosi limitata l’Autorità procedente a dichiarare di aver ritenuto equo comminare la predetta sanzione in ragione del comportamento dell’incolpato, contrario all’art. 63 del Regolamento Generale dell’Arma dei Carabinieri”. In tale contesto non appare, però, condivisibile l’assunto del giudice amministrativo per il quale il contenuto della sanzione disciplinare, “secondo quanto dichiarato dall’Autorità procedente, troverebbe fondamento in valutazioni di natura equitativa”. È evidente che la parola “equo” all’interno del provvedimento finale sia una mera formula di stile(13), che vuole esclusivamente sottolineare il corretto utilizzo del potere discrezionale, e certamente non vuole evidenziare una soluzione di natura equitativa della vicenda, quasi a voler manifestare la volontà di applicare un giudizio di equità, o più correttamente una soluzione concordata ai sensi dell’art. 11, l. n. 241/1990. Non c’è dubbio che l’autorità procedente abbia applicato norme di diritto (altro discorso è se le abbia applicate bene), per cui, in relazione al provvedimento finale, non sembra congruente affermare che siamo di fronte “ad una determinazione di stampo equitativo”. A rigore, da quel che si può desumere dall’illustrazione del fatto in causa, la violazione disciplinare contestata risulta sufficientemente precisa e circostanziata e consiste nell’aver espletato un servizio in abiti civili (con chiara indicazione del tempo e del luogo) in assenza della prescritta autorizzazione, richiesta dall’art. 63 del Regolamento Generale dell’Arma dei Carabinieri. Il provvedimento finale della sanzione disciplinare del “rimprovero scritto”, a quel che è dato di sapere, non si discosta nella formulazione della motivazione dal riferimento agli elementi di fatto e di diritto contenuti nell’atto di contestazione. D’altra parte, “l’assenza di qualsiasi indicazione delle circostanze ritenute favorevoli alla posizione del ricorrente”, non può considerarsi come motivo assorbente della sussistenza del paventato vizio di difetto di motivazione, soprattutto se tali circostanze non siano state allegate dalla parte o non siano state riscontrate in sede istruttoria. Senza considerare che per giurisprudenza costante non occorre che la motivazione contenga una confutazione analitica delle giustificazioni addotte dall’incolpato, poiché scopo del procedimento disciplinare è l’accertamento della sussistenza dei fatti e che siano ragionevolmente addebitabili all’incolpato(14). Si consideri, infine, che la giurisprudenza ha affermato che non esiste un parametro unico di valutazione della sufficienza o meno della motivazione di un provvedimento amministrativo, dovendosi valutare l’adeguatezza della stessa non in astratto ma con immediato e diretto riferimento alla natura dell’atto in questione(15). Per quel che concerne, poi, le sanzioni disciplinari si è affermato che la congruità della motivazione deve essere valutata in ragione della gravità della sanzione irrogata, per cui -a maggior ragione - un rimprovero scritto, il quale è una semplice dichiarazione di biasimo, non richiederebbe una motivazione particolarmente rigorosa e puntuale(16). Sia consentito, però, di avvertire che le predette considerazioni devono essere prese con beneficio d’inventario, non avendo (e non potendosi desumere) l’esatta contezza del contenuto del provvedimento finale de quo.
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(12) - Cfr.: V. Tenore, L’incidenza della nuova legge n. 241 del 1990 sulle pubbliche amministrazioni (e su quella militare in particolare), Padova, Cedam, 2006, 78 ss.
(13) - Il ricorso alla parola “equo” appare nei formulari proposti ai fini applicativi. In particolare, si veda: E. Boursier Niutta - A. Esposito, Elementi di diritto disciplinare militare, cit., 209.
(14) - Sul punto: A. Simoncelli, Disciplina, cit., 780 ss.; E. Boursier Niutta - A. Esposito, Elementi di diritto disciplinare militare, cit., 154; V. Bardi - P. Iovino - B. Salsano - A. N. Serena, La tutela giustiziale: da appunti di esperienze militari, casi e materiali per le amministrazioni pubbliche, Bari, Cacucci, 2005, 245.
(15) - Cfr.: V. Bardi - P. Iovino - B. Salsano - A. N. Serena, La tutela giustiziale, cit., 244.
(16) - Cfr.: A. Simoncelli, Disciplina, cit., 780 ss.; V. Tenore, L’incidenza della nuova legge n. 241 del 1990, cit., 94 ss.

5. Le garanzie difensive nel procedimento disciplinare: i termini a difesa.

Ultimo interessante aspetto è quello connesso con la salvaguardia delle garanzie difensive nel procedimento disciplinare, con riguardo ai termini per presentare memorie difensive.
In generale, l’art. 6, comma 2, d.m. n. 690/1996, dispone che i soggetti che hanno titolo a partecipare al procedimento amministrativo possono presentare memorie scritte o documenti entro un termine pari a due terzi di quello stabilito per la durata del procedimento. Nel caso del procedimento disciplinare di corpo il termine per presentare memorie difensive è di 60 giorni, in relazione al termine massimo di 90 giorni stabilito dallo stesso d.m. n. 690/1996. Oltre tale termine il responsabile del procedimento, anche in mancanza di memorie difensive dell’incolpato, può proseguire nella definizione del procedimento disciplinare. è evidente che se il militare risponde ad un’eventuale più breve termine sollecitatorio apposto nelle contestazioni, o produce proprie giustificazioni prima dei 60 giorni, o dichiara espressamente di non voler fornire alcuna giustificazione, legittima il responsabile del procedimento a proseguire oltre. Si tenga conto che eventuali ulteriori giustificazioni presentate entro il termine di 60 giorni e prima della definizione del procedimento disciplinare vanno obbligatoriamente tenute presenti ai fini della decisione.
Nel caso in argomento, il giudice amministrativo constata una violazione del diritto di difesa dell’incolpato, rilevando che a quest’ultimo è stato concesso un termine di appena 14 giorni, mentre a norma dell’art. 6 d.m. n. 690/1996, avrebbe avuto diritto ad un termine di almeno sessanta giorni, cioè i predetti due terzi della durata del procedimento disciplinare(17). In particolare, la violazione dell’amministrazione sembra realizzarsi sia in relazione alla ritenuta eccessiva brevità del termine concesso (quattordici giorni), sia in relazione alla mancata osservanza del disposto di cui all’art. 6, d.m. n. 690/1996. Sulla brevità del termine basti considerare che se l’autorità procedente avesse voluto (o dovuto), stante anche la non complessa vicenda disciplinare, avrebbe potuto ai sensi dell’art. 6, comma, comma 2, d.m. n. 690/1996, stabilire il termine del procedimento in trenta giorni, “concedendo” così all’incolpato dieci giorni di tempo per produrre memorie scritte o documenti(18). Per quanto riguarda, invece, il mancato rispetto della norma di cui all’art. 6, d.m. n. 690/1996, il T.A.R. Friuli Venezia Giulia dopo aver constatato - de plano - il comportamento formalmente illegittimo dell’autorità procedente, svolge di seguito alcune interessanti considerazioni. Seppur si sia di fronte ad una violazione in astratto della normativa sul diritto alla difesa dell’incolpato, sul piano concreto il giudice amministrativo rileva che “la violazione in parola non si è tradotta in una lesione effettiva delle garanzie del ricorrente, atteso che il procedimento amministrativo si è concluso, come sopra ricordato, il 18.2.2003, e nulla vietava al D. di presentare comunque, in tale torno temporale, memorie ed osservazioni all’Autorità procedente”. In sostanza, la violazione del diritto di difesa va riscontrata in concreto e un’omissione di carattere formale da parte del responsabile del procedimento, come il non aver indicato espressamente il termine di sessanta giorni, non realizza necessariamente una lesione effettiva di quel diritto.

Ten. Col. CC Fausto Bassetta

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(17) - In giurisprudenza, sulla mancata concessione di adeguati termini per difendersi, cfr.: T.A.R. Liguria, Sez. I, sent. 26 febbraio 2004, n. 219 (c.c. 22 gennaio 2004), Pres. Vivenzio, Est. Prosperi; T.A.R. Friuli - Venezia Giulia, sent. 25 gennaio 2000, n. 61 (c.c. 14 gennaio 2000), Pres. Zuballi, Est. Di Sciascio.
(18) - Sul punto: E. Boursier Niutta - A. Esposito, Elementi di diritto disciplinare militare, cit., 127. Si tenga presente che a norma del novellato art. 7, l. n. 241/1990, il responsabile del procedimento deve rendere edotto l’interessato, con la comunicazione di avvio del procedimento amministrativo, della data entro la quale, deve concludersi il procedimento. L’attuale termine di 90 giorni del procedimento disciplinare di corpo deve intendersi come termine massimo, a garanzia dell’incolpato. Nulla vieta all’amministrazione procedente di fissare per il singolo, concreto procedimento un termine inferiore, garantendo nel contempo l’esplicazione del diritto di difesa.



Procedimento disciplinare - Sospensione per legittimo impedimento - Partecipazione commisisone di disciplina - Impossibilità oggettiva - Legittimità.

È legittima la sospensione del procedimento disciplinare solo in presenza di un legittimo impedimento che non consenta all’incolpato di presenziare alla seduta della commissione di disciplina. L’impedimento de quo deve consistere in una vera e propria impossibilità a partecipare alla seduta, non potendosi ritenere sufficiente un qualsiasi stato di infermità, indipendentemente dalla sua natura e dalle sue effettive conseguenze. L’onere della prova circa la sussistenza di un siffatto impedimento è, secondo i principi generali, a carico di chi invoca a suo favore detta circostanza (e cioè l’inquisito), sicché il medesimo deve produrre una certificazione medica che non si limiti ad attestare la sussistenza di una infermità, ma che precisi in modo chiaro ed espresso, qualora ciò non risulti evidente secondo comuni regole di esperienza (fermo restando che l’organo disciplinare non è competente ad effettuare valutazioni di ordine medico), che l’infermità stessa comporta l’impossibilità a partecipare alla seduta.


Sanzione disciplinare di stato - Perdita del grado per rimozione - Adozione in difformità del parere della commisisone - Legittimità.

L’espressa previsione normativa che attribuisce all’autorità centrale, competente ad irrogare le sanzioni disciplinari di stato, la possibilità di discostarsi dal parere della commissione di disciplina in casi di particolare gravità, non attribuisce alla stessa un ordinario potere di revisione in pejus delle deliberazioni adottate nella precedente istanza collegiale, ma si riferisce ad ipotesi del tutto eccezionali o extra ordinem, nel contesto delle quali al decidente è consentito di valorizzare elementi o presupposti di ordine prospettico generale non tenuti adeguatamente presenti dall’organo istruttorio. Di conseguenza, allorché l’autorità deliberante fa uso di tale facoltà non può limitarsi ad esporre le ragioni in base alle quali non consente col diverso e meno afflittivo giudizio espresso dalla commissione di disciplina, ma deve invece concretamente individuare le circostanze eccezionali che impongono di disattendere la proposta formulata dall’organo competente, all’esito del giusto procedimento e con la piena garanzia del contraddittorio.

T.A.R. Lazio - Roma, sez. I-bis, sent. n. 11083/2006 (c.c. 18 ottobre 2006), Pres. Orciuolo, Est. Politi, G. E. c. Ministero Difesa.

Si legge quanto appresso in sentenza:
“1. Va in primo luogo escluso che il provvedimento impugnato - irrogativo della sanzione della perdita del grado per rimozione - sia inficiato, come sostenuto dalla parte ricorrente, in ragione dell’affermata decadenza dall’esercizio del sotteso potere, atteso che, nel corso del procedimento disciplinare, sarebbe stato superato il termine di giorni 90 previsto dall’applicabile disciplina di legge quale spazio temporale massimo intercorrente - fuori dai casi di consentito differimento - fra un atto ed il successivo del procedimento stesso.
Giova, al riguardo, operare una preventiva ricostruzione della scansione temporale che ha caratterizzato il procedimento de quo.
A fronte del deferimento del G[.] alla Commissione di disciplina (avvenuto il 7 agosto 2001), tale organismo veniva convocato per la successiva data del 30 ottobre 2001. Siffatta riunione, in conseguenza di un impedimento per motivi di salute dal G[.] stesso evocato quale causa impeditiva, veniva successivamente differita (con determinazione assunta dal Presidente dell’organismo il 5 novembre 2001) alla data del 29 gennaio 2002.
Rassegnato, nella seduta da ultimo indicata, il parere di competenza e trasmessi gli atti all’Autorità decidente, interveniva quindi il conclusivo provvedimento irrogativo di sanzione, assunto con decreto recante data del 26 aprile 2002.
Quanto alle ragioni del disposto differimento della riunione della Commissione di disciplina dal 30 ottobre 2001 al 29 gennaio 2002, va evidenziato che tale determinazione è stata assunta su esplicita richiesta del ricorrente (recante data 29 ottobre 2001) con la quale veniva evidenziato che “facendo seguito a quanto già comunicato circa le mie attuali condizioni di salute e la connessa impossibilità ad effettuare spostamenti, considerata l’importanza che il giudizio in argomento riveste nella mia vita professionale e personale, ed avendo l’intenzione di coadiuvare il giudizio della Commissione in condizioni di maggiore serenità, adesso non pienamente posseduta in ragione del grave incidente occorsomi, chiedo di poter attendere il completamento della guarigione e che pertanto il termine ultimo per la convocazione della medesima Commissione di disciplina venga spostato, rispetto alla data fissata per il 7 novembre 2001 di novanta giorni in avanti”.
Ora a prescindere dalla dimostrata disinvoltura rivelata dalla posizione assunta dal ricorrente (che dapprima ha sollecitato, producendo conforme certificazione proveniente da pubblica struttura sanitaria, il differimento della seduta della Commissione di disciplina e poi ha dedotto, in sede giudiziaria, che tale determinazione, adottata su sua istanza, abbia inficiato il procedimento determinando un effetto decadenziale sull’esercizio del potere disciplinare), deve tuttavia escludersi che il rinvio de quo assuma tale valenza.
Va, al riguardo, richiamato quanto affermato dalla Sezione III del Consiglio di Stato, con parere n. 598/1991, reso all’adunanza del 24 aprile 2001.
Nel sottolineare come l’applicabile normativa disponga che l’inquisito debba essere convocato dinanzi ai Consigli o Commissioni di disciplina, ove può svolgere direttamente le sue difese anche in forma orale, senza prevedere alcuna deroga al riguardo, è stato rilevato che la possibilità prevista dall’art. 73 della legge 599/1954 di farsi assistere da un Ufficiale difensore costituisca un’ulteriore garanzia di difesa: ma, in assenza di specifiche disposizioni in tal senso, non possa ritenersi sostitutiva del diritto di difendersi personalmente.
È stato, conseguentemente, ritenuto che i Consigli o le Commissioni di disciplina non possono in alcun modo pronunciarsi qualora l’interessato abbia comprovato la sussistenza di un impedimento alla partecipazione alle sedute dovuto a motivi di salute; evidenziandosi tuttavia, con riferimento a siffatto impedimento:
che esso “deve consistere in una vera e propria impossibilità a partecipare alla seduta, non potendosi ritenere sufficiente un qualsiasi stato di infermità, indipendentemente dalla sua natura e dalle sue effettive conseguenze”;
che l’onere della prova circa la “sussistenza di un siffatto impedimento è, secondo i principi generali, a carico di chi invoca a suo favore detta circostanza (e cioè l’inquisito), sicché il medesimo deve produrre una certificazione medica che non si limiti ad attestare la sussistenza di una infermità, ma che precisi in modo chiaro ed espresso, qualora ciò non risulti evidente secondo comuni regole di esperienza (fermo restando che l’organo disciplinare non è competente ad effettuare valutazioni di ordine medico), che l’infermità stessa comporta l’impossibilità a partecipare alla seduta”;
per l’effetto escludendosi che, in assenza di una certificazione siffatta, possa ritenersi sussistente “un legittimo impedimento”, potendo pertanto “l’organo giudicante possa pronunciarsi anche senza aver sentito l’interessato”.
Il tenore della certificazione dell’Azienda U.S.L. n. 8 di Cagliari in data 16 ottobre 2001 ha evidenziato, a carico del ricorrente, la presenza di una frattura al femore destro, esplicitando altresì che “si sconsiglia assolutamente di affrontare un viaggio” in ragione dell’attuale mancanza di autonomia del G[.], deambulante con doppio appoggio con carico differenziato.
Escluso che la Commissione di disciplina potesse, a fronte di tale risultanza medica, operare una propria difforme valutazione, “interpretando” la valenza e/o l’arco temporale impeditivi alla partecipazione del ricorrente alla seduta della Commissione stessa, deve ritenersi che, alla stregua delle indicazioni rinvenibili nel citato parere della Sezione III del Consiglio di Stato, appieno ricorresse nella vicenda all’esame idoneo presupposto (legittimo impedimento asseverato da omogenea ed inequivoca certificazione medica) per un differimento della seduta della Commissione (nella circostanza disposto per data conforme a quanto dal ricorrente stesso richiesto).
Consegue a quanto sopra sottolineato che il differimento de quo si dimostra inidoneo a determinare il superamento del termine di giorni 90 intercorrente fra atti del procedimento disciplinare, in ragione della ravvisabile legittimità della determinazione con la quale è stata differita la convocazione della Commissione di disciplina.
L’infondatezza della doglianza all’esame, alla stregua delle considerazioni precedentemente esposte, ne impone dunque la reiezione.
2. Viene poi in considerazione la censura con la quale la parte ricorrente ha denunciato il difetto motivazionale del provvedimento gravato, il quale non avrebbe dato compiuta evidenza alle ragioni che hanno indotto l’Autorità decidente a discostarsi dal parere reso dalla Commissione di disciplina.
2.1 Va, innanzi tutto, sgombrato il campo da un possibile equivoco di fondo, rappresentato dalla possibilità, in sede di adozione del conclusivo provvedimento irrogativo di sanzione disciplinare, di pervenire a conclusioni difformi rispetto a quelle rese dalla Commissione di disciplina, realizzando una reformatio in pejus che si sostanzi nell’inflizione di una sanzione più grave rispetto alla proposta formulata da tale ultimo organismo.
Tale riflessione si rende necessaria in quanto la stessa Sezione IV del Consiglio di Stato, nel riformare (con provvedimento n. 1207 del 18 marzo 2003) l’ordinanza di questa Sezione n. 6404/2002, ha affermato che “il disposto dell’art. 42 l. n. 1168 del 1961 non sembra consentire nei confronti dei CC la reformatio in pejus, possibile invece nei confronti degli appartenenti ad altre Forze Armate ex l. 599/54”.
La Sezione ha motivo di dissentire da tale affermazione. Prevede l’art. 75 della legge 31 luglio 1954 n. 599 (Stato dei sottufficiali dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica) che all’esito del procedimento disciplinare “il Ministro può discostarsi dal giudizio della Commissione di disciplina a favore del sottufficiale e, soltanto in casi di particolare gravità, anche a sfavore”.
Come è noto, analoga previsione risultava fino al 1957 contenuta nell’ordinamento disciplinare degli impiegati civili dello Stato nonché in quello dei dipendenti degli enti locali.
Con l’entrata in vigore dell’art. 114 del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, la facoltà per il l’Autorità decidente di provvedere in malam partem è stata espunta dall’ordinamento dell’impiego civile statale, prevedendosi l’obbligo per il Ministro di conformarsi alla deliberazione della Commissione di disciplina, salvo che egli non ritenga di disporre in modo più favorevole all’impiegato.
In sostanza, in quell’ordinamento, la valutazione in ordine alla rilevanza disciplinare del comportamento tenuto dal dipendente incolpato è riservata all’Organo collegiale appositamente istituito, sulla base del giusto procedimento avanti ad esso espletato, mentre all’Autorità decidente (ora ovviamente non più il Ministro ma il Dirigente generale, ai sensi del D.Lgs. 29/1993) è consentito di discostarsi dalla relativa proposta solo in bonam partem, evidentemente valorizzando elementi favorevoli al dipendente non adeguatamente tenuti presenti in sede procedimentale. In tale mutato contesto normativo, la disposizione del 1954 (riguardante i sottufficiali) se viene con evidenza ad assumere carattere speciale rispetto al principio generale enunciato dalla corrispondente norma del T.U. del 1957, non evidenzia ancora elementi di incompatibilità col principio costituzionale di uguaglianza e ragionevolezza, essendo non omologabili le situazioni - status dell’impiegato civile e status del militare - da porre a raffronto.
L’art. 42 della legge 18 ottobre 1961 n. 1168 (Norme sullo stato giuridico dei vice brigadieri e dei militari di truppa dell’Arma dei carabinieri), nel recepire nel peculiare ordinamento dell’Arma il principio enunciato dal T.U. n. 3/1957, ha previsto che il Ministro possa “discostarsi dal giudizio della Commissione di disciplina a favore del militare”.
Come autorevolmente sostenuto dallo stesso Consiglio di Stato (sent. 19 ottobre 2002 n. 5370; fra l’altro segnalandosi l’identità del relatore di tale decisione rispetto a quello dell’ordinanza cautelare precedentemente indicata), il riportato quadro normativo di riferimento potrebbe dimostrarsi suscettibile di indurre, “nei confronti di soggetti tutti caratterizzati dall’identico status militare, una potenziale lesione del principio costituzionale di uguaglianza e ragionevolezza, atteso che l’Autorità decidente mentre nel caso dei Carabinieri non può più irrogare sanzione diversa (se non più lieve) di quella proposta dalla Commissione, nel caso degli altri sottufficiali può invece tuttora applicare - e senza limiti - sanzione più grave”.
La stessa decisione della Sezione IV n. 5370/2002, nel verificare se la norma di cui all’art. 75 della legge 599/1954 fosse - o meno - in tali limiti suscettibile di essere interpretata in senso conforme a Costituzione, ha ritenuto che tale dubbio possa “essere superato solo considerando da un lato la peculiarità dei compiti non esclusivamente militari affidati all’Arma dei Carabinieri quale Forza di Polizia e dall’altro … configurando come del tutto eccezionale l’ipotesi della inflizione ai sottufficiali … di sanzione più grave di quella proposta dall’Organo di disciplina”.
Deve condividersi, allora, quanto sostenuto nella ripetuta decisione del 2002, nel senso che la legge n. 1168/1961, nella parte in cui “prevede che il Ministro possa discostarsi dal parere della Commissione di disciplina in casi di particolare gravità, non attribuisce al Ministro un ordinario potere di revisione in pejus delle deliberazioni adottate nella precedente istanza collegiale, ma si riferisce ad ipotesi del tutto eccezionali o extra ordinem, nel contesto delle quali al decidente è consentito di valorizzare elementi o presupposti di ordine prospettico generale non tenuti adeguatamente presenti dall’Organo istruttorio”: con la conseguenza che “allorché l’Autorità deliberante fa uso di tale facoltà non può limitarsi ad esporre le ragioni in base alle quali non consente col diverso e meno afflittivo giudizio espresso dalla Commissione di disciplina … ma deve invece concretamente individuare le circostanze “eccezionali” che impongono di disattendere la proposta formulata dall’Organo competente, all’esito del giusto procedimento e con la piena garanzia del contraddittorio”.
2.2 Confermato come, a giudizio della Sezione, anche nei confronti degli appartenenti all’Arma dei Carabinieri sia possibile - sia pure alle condizioni precedentemente evidenziate - pervenire, all’atto dell’adozione del provvedimento irrogativo di sanzione, ad una reformatio in pejus rispetto alle conclusioni rassegnate dalla Commissione di disciplina, l’analisi con ogni evidenza transita sulla concreta individuazione della presenza di circostanze (compiutamente evidenziate) atte a determinare un siffatto scostamento, ad opera dell’Autorità decidente, in malam partem.
Sempre alla stregua di quanto sostenuto dalla IV Sezione del Consiglio di Stato con la ripetuta sentenza n. 5379/2002, fa carico all’Autorità decidente l’onere “di evidenziare i presupposti di natura straordinaria in ipotesi abilitanti alla reformatio in pejus”.
Ciò osservato, ritiene il Collegio che il provvedimento impugnato sia suffragato da un idoneo apparato motivazionale, dal quale emergono con sufficiente chiarezza le ragioni che hanno indotto l’autorità emanante a fare uso del potere di riforma del giudizio reso dalla Commissione di Disciplina, essendo ivi evidenziati i presupposti abilitanti alla reformatio di che trattasi. L’Amministrazione, nella fattispecie, ha tenuto presente, in punto di fatto, che il ricorrente, “Vice Brigadiere dell’Arma dei Carabinieri, coinvolto in una indagine giudiziaria, è risultato essere un assiduo frequentatore di locali notturni all’interno dei quali veniva consumata sostanza stupefacente del tipo cocaina. Tale comportamento veniva consapevolmente posto in essere poiché condizionato dalle circostanze contingenti. Le indagini appuravano inoltre l’incontestabile frequentazione con persone abitualmente dedite all’uso di sostanze stupefacenti una delle quali, rendendo dichiarazioni in parte autoaccusatorie, ha riferito di assumere frequentemente cocaina unitamente al vicebrigadiere e di cedere, vicendevolmente, lo stupefacente a titolo oneroso. L’assunzione abituale di cocaina da parte del sovrintendente è stata confermata, innanzi all’Autorità giudiziaria, da una donna con la quale il militare aveva intrattenuto una relazione sentimentale e da altro suo conoscente”.
Tale analitica ricostruzione dei fatti - rilevante ai fini dell’assunzione della decisione conclusiva del procedimento disciplinare, atteso che la definizione del giudizio penale con pronunzia assolutoria non avrebbe reso possibile operare un riferimento ob relationem a fatti e/o circostanze appurate dall’Autorità giudiziaria - ha indotto una valutazione della condotta tenuta dal G[.] nei seguenti termini:
“tale comportamento, a prescindere dall’abituale assunzione di cocaina, è censurabile sia sotto il profilo deontologico poiché la qualità di appartenente all’Arma era conosciuta dalle persone e sia per aver dimostrato, nelle due circostanze in cui gli è stato offerto lo stupefacente, gravissime carenze caratteriali, tanto da non essere riuscito ad affermare la propria volontà e quindi sottrarsi dal tenere comportamenti contrari allo status di Carabiniere”.
La correlazione fra la sanzione nella fattispecie irrogata e l’operata considerazione della condotta tenuta dal G[.] segue alle seguenti, ulteriori affermazioni contenute nel gravato provvedimento di perdita del grado:
“La condotta del militare:
- è biasimevole sotto l’aspetto disciplinare, in quanto contraria ai principi di moralità e rettitudine che devono improntare l’agire di un militare, ai doveri attinenti al giuramento prestato ed ai doveri di correttezza ed esemplarità propri di un appartenente all’Arma dei Carabinieri, nonché lesiva del prestigio dell’Istituzione;
- ha irrimediabilmente compromesso la fiducia che l’Arma dei Carabinieri, impegnata prioritariamente in compiti di prevenzione e repressione dei fenomeni criminosi, soprattutto connessi alle sostanze stupefacenti, deve nutrire incondizionatamente nei confronti del proprio personale”. Sono stati, dunque, valorizzati i presupposti ed individuate le circostanze di eccezionale gravità, evidentemente non tenuti in adeguato conto dalla Commissione di disciplina, che hanno imposto all’Autorità amministrativa di modificare la adottata proposta.
È stata, pertanto, decretata l’espulsione del ricorrente dall’Arma dei Carabinieri, siccome resosi protagonista di un comportamento ritenuto - con motivazione invero indenne da censure - disciplinarmente biasimevole, siccome contrario ai principi di moralità e rettitudine cui l’azione militare deve essere improntata, ai doveri connessi al giuramento prestato, ed a quelli di correttezza ed esemplarità, nonché lesivo del prestigio dell’Istituzione; ulteriormente rappresentandosi l’irrimediabile compromissione del collegamento fiduciario che l’Arma dei Carabinieri, notoriamente impegnata in via prioritaria in compiti di prevenzione e repressione di fenomeni criminosi connessi alle sostanze stupefacenti, deve nutrire nei confronti dei propri operatori.
In altri termini, l’Autorità non ha operato una diversa valutazione dei fatti, ritenendoli più gravi rispetto a quanto considerato dalla Commissione di disciplina; ma, nell’ambito del potere discrezionale di scelta di una sanzione adeguata alle violazioni concretizzatesi, ha ritenuto di irrogare quella più grave, non apoditticamente, ma attraverso un percorso argomentativo, in ordine alla congruità del quale questo giudice non può che arrestarsi.
3. Come è infatti noto, il sindacato giurisdizionale non può estendersi a valutazioni di merito in ordine alla ragionevolezza intrinseca della sanzione espulsiva inflitta al sottufficiale, siccome correlata all’apprezzamento del grado di gravità dei comportamenti o fatti contestati, che rientra nell’ambito di un potere amministrativo, censurabile solo per travisamento dei fatti o manifesta illogicità.
I detti parametri, sintomatici di illegittimità, peraltro, non ricorrono nel caso de quo.
Intanto, rileva il Collegio che i fatti contestati coincidono con quelli emersi in sede di redazione del rapporto finale relativo all’inchiesta disciplinare avviata nei confronti del G[.].
Deve, pure, essere rilevato che gli stessi fatti sono stati posti in giusta correlazione alla specifica e delicata funzione assegnata al titolare della qualifica di agente di p.s. e di p.g., che dovrebbe essere impiegato nella repressione degli stessi crimini di cui è stato, invece, protagonista.
Il provvedimento impugnato, resiste, pertanto, anche alle censure dedotte avverso la parte dispositiva dello stesso, siccome idoneamente supportato dalla circostanze in fatto contestate dall’incolpato in maniera invero assai poco convincente, segnatamente con riferimento:
- alla circostanza della offerta, più volte ripetuta nei confronti del ricorrente, di sostanza stupefacente, effettuata nei confronti del medesimo in correlazione con la mera circostanza della presenza del G[.] all’interno di un locale notturno;
- alla distinzione, che il ricorrente stesso ha tentato di avvalorare, fra il termine “assaggiare” ed il termine “assumere”: sostenendo, invero in modo apodittico (e, comunque, non dimostrato), di essersi limitato ad “assaggiare” la cocaina per poterne identificare la natura e di non avere, invece, inteso “assumere” tale sostanza stupefacente;
- all’ulteriore rilievo, condivisibilmente dedotto dall’Amministrazione nella relazione recante data del 12 settembre 2002, con il quale viene dato atto della “singolarità” della circostanza che il ricorrente medesimo sia “in grado di riconoscere la cocaina assaggiandola, come da egli stesso dichiarato nelle memorie difensive, pur non avendo mai prestato servizio presso reparti dell’Arma specializzati nella repressione del traffico di sostanze stupefacenti”.
Il complesso dei rilievi in precedenza condotti consente al Collegio di escludere la fondatezza delle doglianze con le quali la parte ricorrente ha argomentato la inadeguatezza motivazionale in relazione all’esercitato potere di reformatio in pejus della proposta formulata dalla Commissione di disciplina, nonché, più in generale, della incongruità dell’apparato giustificativo addotto a sostegno dell’adozione della contestata sanzione espulsiva.
4. Quanto, poi, alla pure denunciata sproporzione fra fatti addebitati e sanzione irrogata, in ragione del sottostante principio di “proporzionalità” e/o “adeguatezza” della sanzione disciplinare rispetto alla consistenza dei fatti addebitati ed accertati in sede di svolgimento del preordinato iter procedimentale, si rileva quanto segue.
Va in primo luogo osservato, al riguardo, che la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha ormai da tempo precisato che il principio di gradualità della sanzione trova applicazione non solo nel procedimento penale, ma anche in quello disciplinare, per cui le sanzioni destitutive, sia nel campo del pubblico impiego che in quello delle professioni inquadrate in ordini o collegi professionali, non possono essere disposte in modo automatico, ma debbono seguire un procedimento disciplinare che in modo autonomo consenta di adeguare la sanzione al caso concreto secondo il principio di proporzione, dandone specifica e puntuale ragione nella relativa determinazione finale (cfr. le pronunzie della Corte Costituzionale nn. 971 del 1988, 40 del 1990, 197 del 1993, 239 del 1996, 363 del 1996 e 2 del 1999).
Ne consegue, all’evidenza, che l’Amministrazione, nell’adottare i relativi provvedimenti disciplinari deve necessariamente tenere conto, a pena di illegittimità, del principio di proporzionalità delle sanzioni anzidetto, in relazione ai profili soggettivi ed oggettivi della vicenda.
Non vi è quindi dubbio che nella ipotesi di irrogazione della sanzione massima, l’Amministrazione debba specificatamente ed adeguatamente valutare non tanto l’astratta natura del comportamento ascritto al dipendente, quanto la sua obiettiva gravità, nel senso dell’incidenza che ha avuto nel tessuto sociale e degli indizi di pericolosità che lo hanno caratterizzato, nonché la complessiva personalità e la condotta precedente e successiva del dipendente medesimo, lo stato di servizio, il suo recupero morale ed il tempo trascorso dal fatto, dando espressa e puntuale ragione nel relativo provvedimento della effettiva corrispondenza della sanzione stessa, a quanto obiettivamente accertato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30 maggio 1996 n. 695 e 29 novembre 1995 n. 1656; nonché T.A.R. Liguria, sez. I, 19 gennaio 2001 n. 48 e 30 ottobre 1997 n. 394).
Se è vero che il criterio di proporzionalità tra i fatti contestati e la sanzione comminata va considerato come una proiezione del generale principio di ragionevolezza, che deve improntare in ogni materia l’azione dell’Amministrazione e che costituisce un limite invalicabile per la libertà di apprezzamento di cui la stessa Amministrazione dispone, va tuttavia escluso che il Giudice amministrativo possa valutare autonomamente il fatto addebitato all’impiegato quale illecito disciplinare.
Ciò in quanto la valutazione della punibilità di un comportamento rientra nella sfera di apprezzamento discrezionale dell’Amministrazione e non può essere sindacata se non per evidenti ragioni di contraddittorietà e di travisamento dei fatti (Cons. Stato, sez. IV, 14 dicembre 2004, n. 7964).
Valgono, insomma, le considerazioni di principio, più volte ribadite in sede giurisdizionale (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 28 gennaio 2002 n. 449), secondo cui la determinazione relativa alla entità della sanzione disciplinare è espressione di una tipica valutazione discrezionale della Pubblica Amministrazione, di per sé insindacabile dal giudice amministrativo (tranne che nei casi in cui essa appaia manifestamente anomala o sproporzionata o particolarmente severa in quanto determinata nel massimo consentito) e che il Giudice non può sostituire la propria valutazione a quella dell’Amministrazione, ma può soltanto verificare che l’atto sia sorretto da adeguata motivazione e basato su fatti manifestamente gravi e tali da indurla a considerarli incompatibili con la prosecuzione del rapporto di lavoro (Cons. Stato, sez. IV, 5 ottobre 2004 n. 6490).
Al Collegio, in ogni caso e con specifico riferimento alla fattispecie in esame, non pare illogico, né sostanzialmente ingiusto, l’apprezzamento dell’Amministrazione: la quale, sulla base dei fatti precedentemente enunciati, dimostranti la presenza di una complessiva condotta indubbiamente connotata da carattere di incontroversa gravità, ha adottato il pur grave provvedimento della perdita del grado per rimozione, ritenendo incompatibile tale comportamento con la prosecuzione del servizio.
Né, d’altro canto, può fondatamente confutarsi che la condotta tenuta dal ricorrente si sia posta in chiaro contrasto con i doveri attinenti al giuramento prestato ed al grado rivestito; ed abbia, altresì, compromesso la figura morale del militare, arrecando indubbio nocumento all’immagine ed al prestigio dell’Istituzione ed incrinando irreversibilmente, come precedentemente osservato, il necessario rapporto fiduciario che deve intercorrere fra quest’ultima e gli appartenenti all’Arma dei Carabinieri.
5. Il complesso delle considerazioni in precedenza rassegnate induce la Sezione a dare atto dell’infondatezza delle doglianze dedotte con il presente gravame, che deve conseguentemente essere respinto”.

La reformatio in pejus nel procedimento disciplinare di stato.

1. Premessa.

La sentenza in commento è relativa ad una vicenda disciplinare conclusasi con l’irrogazione della sanzione disciplinare di stato della perdita del grado per rimozione a carico di un vice brigadiere dell’Arma dei carabinieri. Il procedimento disciplinare è stato attivato a seguito di un giudizio penale nel quale il ricorrente è stato indiziato di detenzione e cessione di sostanze stupefacenti, conclusosi con una pronuncia assolutoria “perché il fatto non sussiste”. Nondimeno, dall’intera vicenda emergeva che il ricorrente frequentasse ambienti e persone controindicate e facesse uso di sostanze stupefacenti e, pertanto, gli venivano contestate diverse responsabilità disciplinari, relative alla violazione dei doveri attinenti al giuramento prestato e al grado rivestito. La commissione di disciplina, alla quale l’incolpato è stato deferito, valutava - comunque - lo stesso meritevole di conservare il grado. Di diverso avviso l’autorità ministeriale, competente ad adottare la decisione finale, la quale al termine del procedimento disciplinare disponeva nei confronti del ricorrente la perdita del grado per rimozione. La sanzione veniva adottata con decreto ministeriale n. 104/III-7/2002, emesso dal Direttore Generale per il Personale Militare del Ministero della Difesa, in data 26 aprile 2002, con il quale - come viene espressamente indicato nel corpo della sentenza - “veniva applicata nei confronti del ricorrente la rimozione con conseguente perdita del grado per motivi disciplinari ai sensi dell’art. 60, n. 6, della legge 31 luglio 1954 n. 599”.
La sentenza è particolarmente interessante perché si occupa di molteplici questioni sostanziali e procedimentali, tra le quali è opportuno citare:
- la legittimità della sospensione del procedimento disciplinare solo in presenza di un legittimo impedimento, oggettivamente idoneo ad escludere la possibilità dell’incolpato di presenziare alla seduta della commissione di disciplina;
- la rilevanza dell’assunzione di sostanze stupefacenti come comportamento idoneo a violare i doveri connessi con lo status di militare, tra i quali quelli concernenti il giuramento prestato e il grado rivestito;
- l’ampia discrezionalità dell’amministrazione nel definire la gravità della mancanza e nel determinare la sanzione ritenuta più opportuna;
- l’adeguata motivazione del provvedimento sanzionatorio, la quale deve essere tanto più esaustiva ed aderente quanto più si consideri la gravità della sanzione irrogata.
Ciò che interessa, però, analizzare, in questa sede è la possibilità dell’autorità decidente di discostarsi dal giudizio della commissione di disciplina anche a sfavore dell’incolpato, la cosiddetta reformatio in pejus. L’interesse non è tanto dovuto al dato in sé della rilevanza dell’istituto de quo, ma alla esatta individuazione della normativa applicabile al caso concreto.

2. La discordanza tra giudizio delle commissioni di disciplina e decisione finale.

Le leggi di stato giuridico contemplano la possibilità che l’organo decidente possa adottare un provvedimento non conforme al giudizio dei consigli o delle commissioni di disciplina. In particolare, l’art. 88, legge 10 aprile 1954, n. 551, relativa allo stato giuridico degli ufficiali delle Forze armate(1), stabilisce che il Ministro può discostarsi dal giudizio del consiglio di disciplina a favore dell’ufficiale e, soltanto in casi di particolare gravità, anche a sfavore. Di identico tenore la norma di cui all’art. 75, legge 31 luglio 1954, n. 599, riguardante i sottufficiali delle Forze armate(2). Diversa la norma di cui all’art. 46, 3° comma, legge 3 agosto 1961, n. 833, riguardante lo stato giuridico dei vicebrigadieri e dei militari di truppa della Guardia di finanza, e quella - identica - di cui all’art. 42, 4° comma, legge 18 ottobre 1961, n. 1168, concernente le norme sullo stato giuridico dei vicebrigadieri e dei militari di truppa dell’Arma dei carabinieri. Queste ultime norme dispongono che l’autorità decidente può discostarsi dal giudizio delle commissioni di disciplina a favore del militare, nulla dicono sulla possibilità di una pronuncia anche a sfavore del medesimo.
In definitiva, la normativa vigente opera una distinzione tra gli ufficiali e i sottufficiali e gli appartenenti ai ruoli iniziali, introducendo un potere - certamente di carattere eccezionale - di revisione in pejus, esclusivamente per le prime due categorie. La scelta del legislatore è indubbiamente sottesa ad una logica interna all’ordinamento militare, dove le posizioni gerarchiche sono rigidamente predeterminate e assumono una valenza tutta particolare. In questo senso, la norma sulla possibilità di riformare a sfavore del militare la pronuncia dei consigli o delle commissioni di disciplina rappresenta un’ulteriore garanzia per l’amministrazione, che ha il potere di valutare in modo più severo la posizione disciplinare dei soggetti di questo speciale ordinamento che sono collocati in posizione sovraordinata. Ed a ragione la posizione soggettiva di coloro che hanno maggiori poteri e responsabilità in un ordinamento gerarchico deve poter essere giudicata in maniera tanto più rigorosa quanto più il soggetto è titolare di poteri e di responsabilità istituzionali. La previsione normativa, allora, appare come un potere eccezionale, conferito in casi tassativi e predeterminati. In ultima analisi, la norma sulla reformatio in pejus contemplata in alcune leggi sulla disciplina di stato del personale militare è una norma eccezionale che, secondo i comuni canoni interpretativi, non può essere applicata oltre i casi e i tempi espressamente considerati(3).
A tali conclusioni sembra non giungere il Tar Lazio nella sentenza in commento. In particolare viene affermato che è necessario sgombrare “il campo da un possibile equivoco di fondo, rappresentato dalla possibilità, in sede di adozione del conclusivo provvedimento irrogativo di sanzione disciplinare, di pervenire a conclusioni difformi rispetto a quelle rese dalla Commissione di disciplina, realizzando una reformatio in pejus che si sostanzi nell’inflizione di una sanzione più grave rispetto alla proposta formulata da tale ultimo organismo” (ovviamente il Tar Lazio ritiene praticabile questa possibilità).
L’assunto troverebbe una sua ragione giuridica nella stessa interpretazione del Consiglio di Stato, di cui si valorizza, in particolare, la sentenza 19 ottobre 2002, n. 5370 (IV sezione), dove si afferma che il quadro normativo di riferimento generale potrebbe dimostrarsi suscettibile di essere valutato non pienamente conforme al dettato costituzionale. A tal fine, il differente potere di decisione nei confronti di soggetti tutti caratterizzati dall’identico status militare, potrebbe configurare una potenziale lesione del principio costituzionale di uguaglianza e ragionevolezza. È possibile subito replicare che l’identico status militare non comporta una assoluta identità di situazioni giuridiche soggettive, né tanto meno una uguale posizione gerarchica nell’ambito dello stesso ordinamento militare. I doveri e gli obblighi dei militari possono ben differire in relazione alle diverse categorie e sono anche corrispondenti, nel loro contenuto precettivo, alla diversa posizione gerarchica dei singoli. Tornando all’iter argomentativo del Consiglio di Stato, pienamente condiviso dal Tar Lazio nella decisone in commento, viene affermato che il predetto dubbio di legittimità costituzionale potrebbe essere agevolmente superato considerando la peculiarità dei compiti non esclusivamente militari affidati all’Arma dei Carabinieri. In tale senso, “la legge n. 1168, nella parte in cui prevede che il Ministro possa discostarsi dal parere della Commissione di disciplina in casi di particolare gravità [ma la legge non prevede assolutamente questa circostanza], non attribuisce al Ministro un ordinario potere di revisione in peius delle deliberazioni adottate nella precedente istanza collegiale, ma si riferisce ad ipotesi del tutto eccezionali o extra ordinem, nel contesto delle quali al Decidente è consentito di valorizzare elementi o presupposti di ordine prospettico generale non tenuti adeguatamente presenti dall’Organo istruttorio”. Di conseguenza “allorché l’Autorità deliberante fa uso di tale facoltà non può limitarsi ad esporre le ragioni in base alle quali non consente col diverso e meno afflittivo giudizio espresso dalla Commissione di disciplina … ma deve invece concretamente individuare le circostanze “eccezionali” che impongono di disattendere la proposta formulata dall’Organo competente, all’esito del giusto procedimento e con la piena garanzia del contraddittorio”. È evidente che queste considerazioni sono valide ed opportune in relazione all’esercizio del potere di revisione in pejus, qualora espressamente previsto dalle norme di legge, ma non possono essere utilizzate per argomentare che, anche quando questo potere non sia espressamente previsto, l’autorità decidente può discostarsi dal giudizio dei consigli o delle commissioni di disciplina, a sfavore del militare interessato, individuando e valorizzando le circostanze eccezionali che impongono di disattendere quel giudizio. Sembra, altresì, evidente che in tal modo, volendo argomentare per un’estensione dell’istituto della reformatio in pejus, si travalichino i limiti di una doverosa interpretazione restrittiva di norme di diritto sanzionatorio, operando un’interpretazione analogica in malam partem che non trova alcuna giustificazione positiva e che si pone in contrasto con i principi generali e con lo stesso dettato normativo.
Che “la regula iuris è quella secondo cui per ogni militare di qualunque ordine, grado e ruolo - ad eccezione degli appartenenti al ruolo appuntati carabinieri e finanzieri - il Ministro può discostarsi in melius o in pejus in casi di particolare gravità, rispetto al giudizio della Commissione di disciplina”, è una recente affermazione del Consiglio di Stato che non lascia adito a dubbi(4).

_________________
(1) - La norma si applica anche agli ufficiali della Guardia di finanza, in base al disposto dell’art. 1, legge 15 dicembre 1959, n. 1089, concernente lo stato degli ufficiali del Corpo.
(2) - La norma si applica anche ai sottufficiali della Guardia di Finanza, in base al disposto dell’art. 1, legge 17 aprile 1957, n. 260, concernente lo stato dei sottufficiali del Corpo.
(3) - Cfr.: art. 14 preleggi.
(4) - Cfr.: Cons. Stato, sez. IV, sent. 24 febbraio 2006, n. 810 (c.c. 21 febbraio 2006), Pres. Salvatore, Est. Poli, Ministero Finanze c. F. R.. In precedenza si veda anche: Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 1463/2003 (c.c. 3 dicembre 2002), Pres. Riccio, Est. Carinci, Ministero Finanze c. L. L. Si tenga conto che anche in quest’ultima sentenza il giudice amministrativo sembra equivocare sull’applicazione dell’esatta norma di legge in tema di disciplina di stato, asserendo che ad un sottufficiale della Guardia di finanza debba applicarsi l’art. 46, l. n. 833/1961, invece (e più correttamente), dell’art. 75, l. n. 599/1954. Ancora sul divieto della reformatio in pejus del giudizio di una commissione di disciplina, riguardante gli appartenenti al ruolo iniziale della Guardia di finanza, i quali hanno una disciplina legislativa quasi identica a quella degli appuntati e carabinieri, cfr.: Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 1192/2003 (c.c. 3 dicembre 2002), Pres. Riccio, Est. La Medica, Ministero Finanze c. D. M.

3. La normativa di stato giuridico applicabile al vice brigadiere dell’Arma dei carabinieri.

Il punto essenziale della questione, sul quale sembra che il competente TAR abbia quasi equivocato, è l’esatta normativa di stato giuridico applicabile al vice brigadiere dell’Arma dei carabinieri. In questo senso, il panorama legislativo sull’argomento pone all’attenzione dell’interprete la legge 18 ottobre 1961, n. 1168, intitolata “Norme sullo stato giuridico dei vice brigadieri e dei militari di truppa dell’Arma dei carabinieri”. La legge in questione si occupa dei vicebrigadieri all’art. 44, dove - tra l’altro - si dispone che a questa categoria di militari si applicano le disposizioni della legge 31 luglio 1954, n. 599, riguardante lo stato dei sottufficiali dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica. D’altra parte, oltre alla espressa estensione delle norme di cui al titolo secondo della l. n. 1168/1961, non si evince nell’articolo in questione che al vice brigadiere dell’Arma dei carabinieri sia applicabile interamente il provvedimento di legge de quo. Anzi, proprio l’aver voluto indicare tassativamente quale parte della legge estendere ai vice brigadieri e l’aver voluto, per il resto, operare il rinvio alla l. n. 599/1954, dovrebbe indurre l’interprete a considerare non applicabile a questi ultimi la normativa contenuta nel titolo settimo della l. n. 1168/1961, relativa appunto alla disciplina di stato(5).
Si consideri, poi, la normativa di riordino dei ruoli del personale non dirigente e non direttivo dell’Arma dei carabinieri, normativa di cui al d. lgs. 12 maggio 1995, n. 198. L’art. 30, d.lgs. n. 198/1995, dispone che al personale appartenente ai ruoli ispettori e sovrintendenti (tra questi ultimi troviamo i vice brigadieri) si applicano le disposizioni sullo stato giuridico dei sottufficiali dell’Arma dei carabinieri, previste dalla normativa in vigore (cioè anche dalla l. n. 599/1954), in quanto non in contrasto o - comunque - incompatibili con quelle introdotte dal decreto legislativo in questione.
In definitiva, la normativa riguardante la disciplina di stato per i vicebrigadieri è quella comune a tutti i sottufficiali e dettata dalla l. n. 599/1954. Tale provvedimento di legge, all’art. 75, prevede espressamente che il Ministro può discostarsi dal giudizio delle commissioni di disciplina anche in pejus, in casi di particolare gravità. Per concludere, non c’era assolutamente bisogno di interpretazioni analogiche, bastava applicare esattamente la prevista norma di legge.

Ten. Col. CC Fausto Bassetta



Avanzamento degli ufficiali - Ricorso giuridizionale - Controinteressati

In caso di ricorso giurisdizionale avverso la determinazione dell’esito della valutazione a scelta, sono tecnicamente controinteressati nel giudizio amministrativo tutti gli ufficiali collocati in graduatoria in posizione più favorevole rispetto al ricorrente.

Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 12 settembre 2006, n. 5313 (c.c. 13 dicembre 2005), Pres. Venturini, Est. Rulli, ric. Min. Economia e Finanze c. S. B..
(riforma T.A.R. Liguria, sent.2 aprile 2004, n. 333)

Si legge quanto appresso in sentenza:
““2. L’impianto motivazionale seguito dal giudice di primo grado per pervenire alla soluzione positiva adottata non appare al Collegio condivisibile.
In primo luogo quel giudice non può essere seguito su quanto affermato in ordine alla regolarità del contraddittorio così come istaurato in quel giudizio.
è, infatti, vero che nei giudizi avverso le operazioni di scrutinio per l’avanzamento a scelta degli ufficiali delle forze armate la giurisprudenza aveva tradizionalmente escluso, in forza dell’art. 54, lett.b, della L. n. 1137 del 12 novembre 1955, che “gli ufficiali collocati in posizione poziore rispetto al medesimo ricorrente rivestissero la figura di controinteressati” e ciò sul rilievo che il giudizio di avanzamento a scelta non configurava una ipotesi di scrutinio per merito comparativo ma si articolava in tanti autonomi giudizi quante sono le posizioni degli ufficiali interessati, senza alcun rapporto comparativo con altri aspiranti alla promozione; la disposizione appena citata prevedeva altresì che l’eventuale accoglimento del ricorso comportava l’annullamento della valutazione solo nella parte che relativa al ricorrente senza modificare l’esito della graduatoria in ordine alla promozione degli altri ufficiali tanto che la eventuale promozione dell’interessato (a seguito della rinnovazione del giudizio annullato) avveniva in soprannumero e non comportava la fuoriuscita dalla graduatoria di coloro che erano stati già promossi. Da ciò la stessa giurisprudenza aveva concluso nel senso della indifferenza della impugnativa da parte degli ufficiali promossi che non potevano vantare alcun interesse concreto ed attuale alla conservazione del provvedimento impugnato.
Ma è altrettanto vero che le predette conclusioni sono state, in seguito, attentamente rimeditate alla luce della nuova normativa introdotta dall’art. 40 del D.Lgs. 30 dicembre 1997 n. 470 (che ha provveduto al riordino del reclutamento, dello stato giuridico e dell’avanzamento degli ufficiali) applicabile alla fattispecie in esame trattandosi, come già precisato, di promozioni relative all’anno 1999.
La nuova disposizione ha, infatti, completamente ridisciplinato la procedura di cui al precedente art. 54, lett. b, della legge del 1955 sulla base dei seguenti criteri:
a) l’ufficiale appartenente al grado nel quale l’avanzamento ha luogo ad anzianità, se giudicato idoneo, è promosso al grado superiore con l’anzianità che gli sarebbe spettata qualora la promozione avesse avuto luogo a suo tempo;
b) l’ufficiale appartenente al grado nel quale l’avanzamento ha luogo a scelta, se giudicato idoneo e riporti un punto di merito per cui sarebbe stato promosso qualora attribuito in una precedente graduatoria, è promosso al grado superiore con l’anzianità che gli sarebbe spettata se la promozione avesse avuto luogo a suo tempo.
La promozione di cui al comma 3 non è ricompresa tra quelle “attribuite nell’anno in cui viene rinnovato il giudizio. Qualora non sussista vacanza nelle dotazioni organiche o nei numeri massimi del grado in cui deve essere effettuata la promozione, l’eventuale eccedenza, determinata dalla promozione stessa, viene riassorbita al verificarsi della prima vacanza successiva al 1° luglio dell’anno dell’avvenuta promozione dell’interessato e comunque entro il 30 “giugno dell’anno successivo a quello in cui viene rinnovato il giudizio. Qualora entro tale data non si siano verificate vacanze, le eccedenze sono assorbite con le modalità di cui all’articolo 7 della legge 10 dicembre 1973, n. 804.
Quest’ultima norma a sua volta recita: Le eccedenze che si dovessero verificare, rispetto al numero massimo di cui al precedente articolo 3, nei gradi di generale e di colonnello, saranno eliminate con il collocamento in aspettativa per riduzione di quadri dell’ufficiale anagraficamente più anziano ed, a parità di età, dell’ufficiale meno anziano nel grado, se colonnello, ovvero dell’ufficiale più anziano in grado ed, a parità di anzianità, dell’ufficiale anagraficamente più anziano, se generale e secondo il seguente ordine:
- ufficiali a disposizione giudicati non idonei all’avanzamento nel servizio permanente effettivo;
- ufficiali promossi nella posizione di «a disposizione»;
- ufficiali a disposizione giudicati idonei all’avanzamento nel servizio permanente effettivo ma non iscritti in quadro;
- ufficiali a disposizione ai sensi del sesto comma dell’articolo 48 della legge 12 novembre 1955, n. 1137, e del sesto comma dell’articolo 37 della legge 13 dicembre 1965, n. 1366;
- ufficiali in servizio permanente effettivo in soprannumero, per effetto dell’articolo 48 della L. 12 novembre 1955, n. 1137, e dell’articolo 37 della L. 13 dicembre 1965, n. 1366;
- ufficiali in servizio permanente effettivo.
Ed allora dall’applicazione del combinato disposto delle norme appena richiamate emerge come la posizione degli ufficiali promossi con il quadro di avanzamento contestato non può più ritenersi indifferente o neutra rispetto al giudizio istaurato da un loro pari grado; ciò perché, nell’ipotesi di accoglimento del ricorso e di rinnovazione positiva della valutazione a lui attinente, quest’ultimo viene ad inserirsi nel ruolo non più in soprannumero ma al posto di un collega anche se con le garanzie, le particolari modalità ed i criteri di cui al citato art. 7, così che non può negarsi che gli stessi, avendo interesse a conservare la propria posizione, assumono la figura di soggetti controinteressati formali e sostanziali di quel giudizio.
Da quanto detto consegue che, nella specie, può e deve essere fatta applicazione dei principi generali in materia di integrità del rapporto processuale. Ed invero, come si è già detto, la controversia portata all’esame del giudice di primo grado, ed ora in appello, aveva ad oggetto la graduatoria di merito formulata dall’Amministrazione delle Finanze al termine della procedura di valutazione per l’avanzamento al grado di colonnello e la rinnovazione del giudizio conseguente ad un suo eventuale esito positivo secondo le disposizioni appena ricordate potrebbe pregiudicare la situazione degli ufficiali all’epoca promossi che dovevano e devono, di conseguenza, essere posti in grado di intervenire nel giudizio a tutela delle posizioni così acquisite.
E poiché la regolarità e integrità del contraddittorio costituiscono un presupposto processuale che il giudice amministrativo (anche di appello) è tenuto a controllare d’ufficio ne deriva che, qualora venga acclarato che, come nella fattispecie, la sentenza di primo grado sia stata pronunciata in assenza di tutti o di alcuni dei legittimi e necessari contraddittori (quali sono appunto, nei giudizi quali quelli di avanzamento, tutti gli ufficiali promossi), il giudice di secondo grado deve annullare la statuizione impugnata per difetto di procedura con conseguente rinvio della controversia al Tribunale amministrativo regionale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 35 L. 6 dicembre 1971 n. 1034.
Nella specie, tuttavia e per ragioni di economia processuale, il Collegio ritiene di poter prescindere da tale adempimento, essendo il ricorso di primo grado infondato nel merito””.



Cessazione dal servizio - Scarso rendimento - Procedimento - Termine - Perfezionamento del provvedimento - Legittimità.

Cons. Stato, sez. IV, sent. 28 novembre 2006, n. 6955 (c.c. 31 ottobre 2006), Pres. f.f. ed Est. Saltelli, F. N. c. Ministero Difesa (conf. T.A.R. Lazio - Roma, sez. I-bis, sent. 27 dicembre 2001, n. 12261)

Al fine di verificare se l’amministrazione ha rispettato il termine entro cui poteva (e doveva) esercitare il relativo potere, non deve farsi riferimento al momento in cui il provvedimento è stato portato a conoscenza dell’interessato, ma esclusivamente a quello in cui il provvedimento stesso si è perfezionato ed è stato emanato. Non deve confondersi, invero, tra il momento di perfezione del provvedimento (che coincide con quello in cui vengono ad esistenza tutti i requisiti di sostanza e di forma previsti dalla fattispecie legale e che, dunque, manifestano l’effettivo esercizio del potere da parte dell’amministrazione) dalla fase di comunicazione del provvedimento, in cui non vi è alcun esercizio potere da parte dell’amministrazione, ma solo informazione (e comunicazione qualificata) all’interessato dell’avvenuto esercizio del potere da parte dell’amministrazione (1).

(1) Si legge quanto appresso in sentenza:
“Con la sentenza n. 12261 del 27 dicembre 2001 il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sez. I bis, ha rigettato il ricorso proposto dall’appuntato dei carabinieri in congedo, signor N[.] F[.], avverso il provvedimento prot. DGPM/II/6/40810/95 del 24 maggio 2000 con cui era stata disposta la sua cessazione dal servizio permanente per scarso rendimento.
Secondo il predetto tribunale, in particolare, erano infondate le censure prospettate di “mancanza di atto presupposto, travisamento dei fatti, violazione del giusto procedimento e della buona fede, mancanza di attualità dell’interesse pubblico, sviamento, nonché violazione dell’art. 12, lett. c), dell’art. 17 della legge 18 ottobre 1961, n. 1168 e degli artt. 2 e 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, oltre che contrasto con la circolare n. 18999 - 20/D - 29 del 10 novembre 1990 e difetto di istruttoria e motivazione insufficiente” e di “eccesso di potere per sviamento e contrasto con la circolare del Ministero della Difesa - Direzione generale del Personale Militare n. DGPM/II/5/30001/C42 del 22 maggio 2000.
Avverso tale statuizione ha proposto appello l’interessato con atto notificato il 27 novembre 2002, deducendone l’erroneità e l’ingiustizia e chiedendone la riforma alla stregua di due articolati motivi di gravame: con il primo sono stati sostanzialmente riproposti i motivi di censura svolti in prime cure e, secondo l’appellante, inopinatamente e superficialmente respinti, mentre con il secondo è stato lamentato che i primi giudici avrebbero omesso la necessaria attenta disamina della documentazione versata in atti, da cui emergeva incontestabilmente l’illegittimità del provvedimento impugnato.
L’Amministrazione della Difesa ha resistito al gravame.
Diritto
I. L’appello è infondato e deve essere respinto, non meritando la sentenza impugnata le critiche che le sono state rivolte.
I.1. Deve innanzitutto escludersi la fondatezza della prima suggestiva censura appuntata avverso l’impugnato provvedimento di cessazione dal servizio, secondo cui esso difetterebbe della necessaria proposta (ancorché di essa sia fatta espressa menzione), in quanto l’unica proposta di cessazione riguarderebbe in realtà un procedimento conclusosi nell’agosto del 1999 con una archiviazione per l’esiguità del tempo di valutazione.
Al contrario, dalla documentazione versata in atti dall’amministrazione della difesa sin dal primo grado di giudizio, risulta che la proposta di cessazione dal servizio permanente - che ha dato luogo al procedimento conclusosi con il provvedimento impugnato - è stata formulata dalla Compagnia dei Carabinieri di […] con atto prot. n. 259/3-1-1998 del 18 gennaio 2000.
Di tale proposta e del contestuale avvio del procedimento di cessazione dal servizio permanente l’interessato risulta essere stato immediatamente informato, previa notifica in data 18 gennaio 2000, di apposita comunicazione (di pari numero di protocollo e pari data rispetto alla proposta).
I.2. Ugualmente priva di fondamento, come correttamente rilevato dai primi giudici, è la doglianza relativa all’asserita violazione del termine (di 180 giorni) entro cui l’Amministrazione avrebbe potuto adottare il provvedimento di cessazione dal servizio permanente.
Infatti, diversamente da quanto sostiene l’appellante, al fine di verificare se l’amministrazione ha rispettato il termine entro cui poteva (e doveva) esercitare il relativo potere, non deve farsi riferimento al momento in cui il provvedimento è stato portato a conoscenza dell’interessato (20 luglio 2000), ma esclusivamente a quello in cui il provvedimento stesso si è perfezionato ed è stato emanato (24 maggio 2000): rispetto a tale data il termine di 180 giorni per l’esercizio del potere risulta essere stato rispettato, decorrendo dal 18 gennaio 2000 (data della proposta di cessazione dal servizio).
Non deve confondersi, invero, tra il momento di perfezione del provvedimento (che coincide con quello in cui vengono ad esistenza tutti i requisiti di sostanza e di forma previsti dalla fattispecie legale e che, dunque, manifestano l’effettivo esercizio del potere da parte dell’amministrazione) dalla fase di comunicazione del provvedimento, in cui non vi è alcun esercizio potere da parte dell’amministrazione, ma solo informazione (e comunicazione qualificata) all’interessato dell’avvenuto esercizio del potere da parte dell’amministrazione (nelle forme dovute, nel caso di specie col provvedimento di cessazione dal servizio).
I.3. Anche nel merito le doglianze dell’appellante non sono meritevoli di favorevole considerazione.
In via generale deve rammentarsi che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, da cui non vi è motivo per discostarsi, la dispensa dal servizio per scarso rendimento risponde innanzitutto all’esigenza di tutelare la funzionalità e l’assetto organizzativo della pubblica amministrazione nei riguardi del comportamento del dipendente che, complessivamente, denoti insufficiente rendimento dell’attività da lui prestata, con riguardo all’insussistenza di risultati utili, per quantità e qualità, alla funzionalità dell’ufficio, ed ha pertanto natura diversa da quella disciplinare, potendo tuttavia basarsi anche su fatti disciplinarmente rilevanti (indipendentemente dall’esito del relativo procedimento) e idonei ad apprezzare la scadente attività lavorativa e lo stesso comportamento (C.d.S., sez. IV, 3 maggio 2005, n. 2112; 7 giugno 2004, n. 3561; 5 settembre 2003, n. 4972).
Per tali caratteristiche il provvedimento di cessazione dal servizio permanente costituisce tipico giudizio di merito, basato su di un’amplissima discrezionalità, che sfugge al sindacato del giudice amministrativo, tranne che non risulti inficiata da una palese irragionevolezza, irrazionalità, arbitrarietà e/o travisamento di fatti.
Nel caso di specie tali elementi sintomatici non si rinvengono, in quanto il provvedimento impugnato (e la stessa proposta che ha dato vita al relativo procedimento), lungi dall’essere il frutto di una sorta di accanimento e/o persecuzione nei confronti dell’appellante, trova una adeguata giustificazione nella documentazione caratteristica e nelle considerazioni/valutazioni del Comandante della Compagnia dei Carabinieri di […] e nel parere della Commissione di Valutazione e Avanzamento, nonché nel sintetico, ma non meno puntuale rilievo contenuto nello stesso provvedimento impugnato, laddove si evidenzia che l’interessato “…negli ultimi anni ha mostrato un marcato disinteresse a migliorare l’impegno ai livelli necessari ad assicurare un sufficiente rendimento in servizio, rivelando qualità personali e professionali negative sotto più aspetti, per le quali negli ultimi anni è stato valutato insufficiente”.
Tale articolata ed esaustiva motivazione, accompagnata dall’ulteriore considerazione secondo cui il militare si è mostrato insensibile “ai ripetuti ammonimenti dei superiori a migliorare il proprio rendimento” (ripetuti ammonimenti di cui vi è prova della documentazione in atti, nota prot. 259/2-7-1998 del 29 novembre 1999, dichiarazioni in data 11 gennaio 1999 e 20 marzo 1999), esclude che il provvedimento impugnato sia affetto da difetto di istruttoria ed eccesso di potere per sviamento e motivazione insufficiente.
Il richiamo fatto dall’appellante al suo complessivo servizio ultraventennale nell’Arma dei Carabinieri non è idoneo a scalfire la legittimità del provvedimento impugnato non solo perché anche le deficienze del solo ultimo periodo di lavoro possono essere di per sé giustificative del provvedimento stesso (come del resto ha ricordato la giurisprudenza sopra segnalata), ma anche perché, per un verso, non vi è prova che l’amministrazione non ne abbia tenuto conto, mentre, per altro verso, esso non dà conto di un profilo di militare di qualità eccellenti e spiccate tali da far considerare accidentali e passeggeri i rilievi negativi apprezzati dai superiori.
Né sono utili alla causa dell’appellante le apodittiche argomentazioni circa una asserita volontà malevola nei suoi confronti in relazione a giudizi quasi costantemente insufficienti ovvero inopinatamente abbassati in sede di revisione: è sufficiente rilevare che tali giudizi non risultano mai impugnati, quantunque conosciuti; né vi è prova dell’asserita acredine nei suoi confronti del Comandante della Compagnia, atteso che all’evidenza ciò che risulta dal registro delle visite trimestrali, ed in particolare dal verbale del 2 ottobre 1998, non è frutto di un giudizio o di una valutazione del comandante, quanto piuttosto l’appunto di quanto gli è stato riferito nel corso della visita.
Per completezza si osserva che il provvedimento impugnato, come risulta inconfutabilmente per tabulas, trova il suo fondamento nella proposta del Comandante della Compagnia di […] in data 18 febbraio 2000 e non già nel rapporto informativo (scheda n. 50) relativo al periodo 21 febbraio/18 maggio 2000, così che la circostanza che quest’ultimo sia stato notificato all’interessato solo il 4 agosto 2000 non è in grado di inficiare il provvedimento impugnato, non costituendone atto presupposto.
II. In conclusione l’appello deve essere respinto”.


Ricorso gerarchico - Autorità competente alla decisione - Stessa autorità che ha rilevato la mancanza - Incompatibilità - Non sussiste.

L’autorità militare che rileva un’infrazione per la quale non è competente ad irrogare la relativa sanzione si limita a comunicare l’infrazione commessa all’autorità competente, che in assoluta autonomia decide circa la responsabilità disciplinare del militare incolpato. In tal caso la prima autorità rimane del tutto estranea al procedimento sanzionatorio, per cui nessuna incompatibilità può ravvisarsi nella funzione decisoria che la stessa esercita in sede di ricorso gerarchico, in quanto - come nel caso di specie - autorità immediatamente superiore di quella che ha inflitto la sanzione (1).

Rapporto disciplinare - Forma scritta - Necessità - Non sussiste.

Il rapporto del superiore gerarchico, che rilevi una infrazione per la quale egli stesso non sia competente ad esercitare la potestà punitiva, deve avere la forma scritta. È altresì vero che tale forma non è prescritta ad susbstantiam, non essendo la sua assenza sanzionata con la nullità del procedimento disciplinare che poi si instauri, potendosi quindi seguire il principio per cui non può invocarsi la illegittimità degli atti se lo scopo voluto dalla noma è ugualmente raggiunto (1).

T.A.R. Abruzzo - Pescara, sent. 18 novembre 2006, n. 728 (c.c. 9 novembre 2006), Pres. Catoni, Est. Rasola, R. V. c. Ministero Difesa

(1) Si legge quanto appresso in sentenza:
“Il ricorrente R. V[.], che è vice Brigadiere dell’Arma dei carabinieri, con il ricorso proposto si oppone alla sanzione disciplinare della consegna di sette giorni inflittagli, in quanto, quale Capo equipaggio di autoradio, composto dal predetto e dall’appuntato L[.], veniva allertato dalla centrale Operativa per una rapina, in data 22.7.2000, in danno di un Ufficio postale di […], per attuare un posto di controllo in prossimità dell’uscita autostradale della “A/14”, località casello del Comune di […], che effettuava con l’uniforme in disordine, e cioè senza berretto, privo di arma lunga e di giubbetto antiproiettile, esponendosi incautamente a grave pericolo personale.
Ciò veniva constatato personalmente dal Comandante provinciale dei Carabinieri, sopraggiunto sul posto, che contestava al militare di non avere assunto le misure di sicurezza, indossando l’unico giubbotto antiproiettile in dotazione alla pattuglia.
Chiamato a giustificarsi, il V[.] ha dedotto al Comandante di Compagnia […] la pratica impossibilità ad attuare le misure di sicurezza perché giunto sul posto di controllo, insieme al L[.], pochi istanti prima. Detti argomenti venivano ritenuti speciosi, per cui il 23.7.2000 è stato notificato al ricorrente il provvedimento disciplinare.
Contro tale provvedimento è stato proposto ricorso gerarchico, respinto con decisione assunta dal Comando provinciale […] in data 21.9.2000.
Avverso gli atti impugnati si deduce, con il primo motivo di gravame, la violazione dell’art. 57 del regolamento di Disciplina Militare, approvato con DPR 18.7.1986, n. 545, in quanto insussistente sarebbe la violazione dei doveri di servizio.
La decisione del ricorso gerarchico, inoltre, sarebbe illegittima, anzi nulla, perché assunta dallo stesso Comandante provinciale che aveva contestato al V[.] e al L[.] le infrazioni disciplinari.
Con il secondo motivo si sostiene che la sanzione irrogata al ricorrente sarebbe poi illegittima per violazione dell’art. 58 del R.D.M., che ai nn. 1), 2) e 3) impone al Superiore che ha rilevato l’infrazione disciplinare e per la quale non sia egli stesso competente ad infliggere la sanzione l’obbligo di fare rapporto senza ritardo all’organo competente ad infliggerla.
Poiché tale obbligatoria attività, prevista nella forma scritta, è inesistente, nullo sarebbe il provvedimento sanzionatorio.
Con il terzo motivo dedotto viene denunciata la violazione dell’art. 64 del R.D.M. in quanto il provvedimento sanzionatorio della consegna non specifica le modalità di esecuzione della stessa, che il militare, in quanto coniugato, ha diritto di scontare presso il proprio alloggio privato.
Si rileva infine che la sanzione inflitta non sarebbe proporzionale ai fatti contestati nei quali deve ravvisarsi l’assenza del dolo o della colpa grave.
Si è costituita in giudizio l’Amministrazione intimata che si oppone all’accoglimento del ricorso che ritiene infondato e da respingere.
La causa è stata trattenuta in decisione nell’udienza pubblica del 9 novembre 2006.
Diritto
Il ricorso è infondato in punto di fatto e di diritto e va pertanto respinto.
Premesso che, ai sensi dell’art. 57 del Regolamento di disciplina militare, approvato con DPR 11.7.1986, n. 545, costituisce infrazione disciplinare punibile “ogni violazione dei doveri del servizio e della disciplina indicati dalla legge, dai regolamenti militari o conseguenti”,
si rileva che la violazione dei doveri del servizio, nella specie, risulta oggettivamente sussistente ove si abbia riguardo alla fedele ricostruzione dei fatti, così come emerge dalla decisione del ricorso gerarchico e dalla relazione, prodotta in atti, indirizzata in data 25.11.2000 all’Avvocatura dello Stato dell’Aquila.
Non risponde al vero, infatti, che i militari non avrebbero avuto il tempo di attuare le misure di sicurezza del caso, in quanto, nel tempo in cui il Comandante provinciale è rimasto fermo, per circa tre minuti, con l’autovettura di servizio, al casello di […], l’equipaggio del V[.] e del L[.] era già sul posto, senza che avesse adottato nessuna delle procedure previste e avvedendosi dell’automezzo del Comandante solo quando questo, uscendo dal casello, sopraggiungeva a ridosso dell’autoradio, il che conferma come i militari non fossero in un atteggiamento reattivo e di allerta (“l’App. L[.] era intento a fumare una sigaretta”), non avendo peraltro avuto cura nemmeno di posizionare la loro autovettura in direzione strategica, in grado pertanto di reagire con immediatezza ad eventuali attacchi o di inseguire autovetture sospette.
L’autovettura “era stata in verità sistemata in modo tale da non consentire la più ampia e ottimale visuale”, la qual cosa trova riprova nel fatto che i militari si sono accorti dell’autovettura del Comandante provinciale solo all’ultimo momento.
Quanto al rilievo secondo cui nessuna norma prescriverebbe il momento in cui munirsi dei mezzi di sicurezza, trattasi di rilevo smentito da una serie numerosa di circolari, citate nella relazione del 25.11.2000, che hanno precisato come il controllo di persone sospette imponga ai militari che lo effettuino di adottare tutte le cautele del caso (uso del giubbotto antiproiettile e dell’arma lunga) prima di intraprendere le relative operazioni.
La condotta dei militari facente parte dell’equipaggio dell’autoradio, configurando un atteggiamento di estrema superficialità, al limite dell’irresponsabilità e completa sottovalutazione della situazione di pericolo, non può non integrare gli estremi della violazione della norma citata.
Destituito di ogni fondamento è poi il rilievo per cui il Comandante provinciale non poteva decidere il ricorso gerarchico avendo il medesimo constatato l’infrazione.
Detto Ufficiale si è limitato infatti ad accertare il fatto e a riferirne all’Ufficiale competente ad esercitare il potere disciplinare, che nella specie era il Capitano della Compagnia […], da cui il ricorrente, unitamente al L[.], dipendeva e che, esperiti gli accertamenti del caso e la procedura di rito, ha poi provveduto ad irrogare, sentite le giustificazioni dell’incolpato, la misura sanzionatoria di cui si controverte.
Il Comandante provinciale che, nella sua qualità di Autorità sovraordinata, ha poi deciso il ricorso gerarchico, previsto dall’art. 16 della L. 382/1978, è rimasto quindi del tutto estraneo al procedimento sanzionatorio, per cui nessuna incompatibilità può ravvisarsi nella esercitata funzione decisoria.
Infondato è anche il secondo motivo dedotto.
Se è vero che dalla lettura dell’art. 57 del R.D.M. si desume che il rapporto del Superiore che rilevi una infrazione per la quale egli non sia competente ad esercitare la potestà punitiva debba avere la forma scritta, è altresì vero che tale forma non è prescritta ad susbstantiam, non essendo la sua assenza sanzionata con la nullità del procedimento disciplinare che poi si instauri, potendosi quindi seguire il principio per cui non può invocarsi la illegittimità degli atti se lo scopo voluto dalla noma è ugualmente raggiunto e che nella specie sia stato adeguatamente raggiunto è fuori dubbio, in quanto il Comandante della Compagnia […] ha potuto ugualmente essere informato adeguatamente dell’accaduto e attivare quindi il procedimento disciplinare che - si badi bene - è improntato, in generale, al principio dell’oralità per ragioni di rapidità della procedura (C.S., sez.IV, 27.12.1994, n.1065).
Insussistente è anche la dedotta violazione dell’art. 64 del R.D.M..
Si osserva al riguardo che il 4° comma della norma, disponendo che i militari ammogliati, i sottufficiali e gli ufficiali che usufruiscono di alloggio privato sono autorizzati a scontare presso tale alloggio la punizione di consegna, autorizza ope legis i militari ammogliati ad usufruire di alloggio privato ove scontare la sanzione della consegna, il cui provvedimento pertanto non doveva prescrive modalità esecutive, posto che queste, sussistendone i presupposti, derivano direttamente dalla disposizione regolamentare.
Quanto infine alla censura che investe la proporzionalità della misura affittiva adottata, si osserva che trattasi di censura inammissibile in quanto impinge in valutazioni discrezionali, insindacabili in sede di giudizio di legittimità, salvo che non incorrano in vizi di eccesso di potere di evidente illogicità o contraddittorietà o di travisamento dei fatti, vizi che nella specie non sembrano sussistere.
Per le ragioni che precedono il ricorso va respinto, con equitativa compensazione delle spese”.


Procedimento disciplinare - Termini per presentare memorie difensive - Mancata concessione di un termine pari a due terzi del proceidmento - Grave compromissione del diritto di difesa - Non sussiste.

T.A.R. Piemonte, sez. I, sent. 27 novembre 2006, n. 4456 (c.c. 22 novembre 2006), Pres. Gomez de Ayala, Est. Goso, L. M. c. Ministero Difesa

Secondo un approccio di tipo sostanzialistico, si deve ritenere come la brevità dei termini a difesa, concessi all’interno di un procedimento disciplinare di corpo, trovi giustificazione nella modesta complessità della fattispecie da valutare e nella celerità del procedimento disciplinare stesso (nello specifico conclusosi in due settimane dalla data della contestazione). E’ altresì importante rilevare come la brevità dei termini a difesa non impedisca - comunque - all’incolpato di esprimere compiutamente nel procedimento medesimo (come nel caso di specie) i propri interessi e le proprie argomentazioni, per cui appare insussistente il nocumento del diritto di difesa.(1)

(1) Si legge quanto appresso in sentenza:
“1) Il signor M[.] L[.], maresciallo dell’Arma dei carabinieri, contesta la legittimità della sanzione disciplinare di giorni cinque di consegna irrogatagli con provvedimento del 28 dicembre 2000, per aver rifiutato, per negligenza, il rilascio di un documento legittimamente chiesto da un privato, arrecando disagio al richiedente e provocando le sue lamentele, con conseguente pregiudizio per il prestigio dell’istituzione.
Il gravame giurisdizionale investe direttamente il provvedimento del 1° febbraio 2001, con il quale veniva respinto il ricorso gerarchico avverso il provvedimento disciplinare suindicato.
Il ricorrente si oppone, inoltre, al giudizio insufficiente contenuto nel rapporto informativo relativo al periodo 14 ottobre - 31 dicembre 2000.
2) Con il primo motivo di gravame, l’esponente deduce la violazione dell’art. 6 del decreto ministeriale 8 agosto 1996, n. 690 (Regolamento recante disposizioni di attuazione degli articoli 2 e 4 della legge 7 agosto 1990, n. 241, nell’ambito degli enti, dei distaccamenti, dei reparti dell’esercito, della marina, dell’aeronautica nonché di quelli a carattere interforze).
Tale disposizione prevede che i soggetti legittimati a partecipare al procedimento possano presentare memorie scritte e documenti, entro un termine pari a due terzi di quello stabilito per la durata del procedimento, con un minimo di dieci giorni nel caso di procedimenti aventi durata uguale o inferiore a trenta giorni.
L’allegato al d.m. n. 690/1996 prevede, per il procedimento relativo all’applicazione della sanzione disciplinare di corpo, il termine di novanta giorni: il deducente ne desume che, ai sensi dell’art. 6 citato, gli dovevano essere riservati sessanta giorni per la presentazione delle proprie difese o, comunque, un termine a discolpa ben più lungo rispetto ai cinque giorni concessigli con la contestazione degli addebiti in data 14 dicembre 2000.
Tale irregolarità avrebbe gravemente compromesso l’esercizio del diritto di difesa e, conseguentemente, cagionato l’illegittimità del provvedimento disciplinare. Il Collegio non condivide la prospettazione difensiva.
In un approccio di tipo sostanzialistico, infatti, non si può omettere di rilevare come la brevità dei termini a difesa trovi giustificazione nella modesta complessità della fattispecie da valutare e nella celerità del procedimento disciplinare, conclusosi in due settimane dalla data della contestazione.
E’ soprattutto importante rimarcare, però, come la brevità dei termini a difesa non abbia impedito all’incolpato di esprimere compiutamente nel procedimento i propri interessi e le proprie argomentazioni.
Già il giorno successivo alla contestazione degli addebiti, infatti, egli presentava un’articolata memoria difensiva, con la quale prendeva posizione in merito ai fatti contestati, senza formulare doglianze di sorta in merito alla brevità del termine concesso a discolpa ovvero chiederne una proroga.
Mediante la proposizione del ricorso gerarchico, inoltre, l’interessato ha avuto modo di predisporre nuovamente le proprie difese, cosicché deve ritenersi che tutte le deduzioni e gli elementi di valutazione nella disponibilità del ricorrente siano stati acquisiti nel corso dei due procedimenti disciplinari.
Appare insussistente, pertanto, l’asserito nocumento al diritto di difesa del ricorrente.
3) Parimenti infondate sono le doglianze, formulate con il secondo motivo di gravame, in ordine alle presunte carenze dell’attività istruttoria che ha condotto all’irrogazione della sanzione disciplinare.
Afferma il ricorrente che l’organo competente all’adozione del provvedimento disciplinare avrebbe illegittimamente escluso l’acquisizione dei riscontri probatori da lui indicati, avendo omesso di procedere all’audizione dei testimoni indicati durante l’esame disciplinare svoltosi il 28 dicembre 2000.
Tale omissione concreterebbe violazione dell’art. 59 del Regolamento di disciplina militare, approvato con d.P.R. 18 luglio 1986, n. 545, in forza del quale il procedimento disciplinare per l’irrogazione della sanzione di corpo deve svolgersi attraverso l’acquisizione delle eventuali prove testimoniali.
Osserva il Collegio, però, che le istanze istruttorie dell’incolpato sono state prudentemente valutate dall’amministrazione che, con motivazione diffusa e immune da profili di illogicità, ne ha escluso la rilevanza. Entrambe le testimonianze indicate dal ricorrente, infatti, sono state giudicate ininfluenti, una perché relativa ad un episodio estraneo alla contestazione disciplinare e l’altra in quanto concernente accadimenti rispetto ai quali già si registrava convergenza di versioni tra l’incolpato e il privato la cui segnalazione aveva dato origine al procedimento disciplinare.
Deve ritenersi, pertanto, che la mancata audizione dei testi non abbia comportato alcun pregiudizio alle prerogative difensive dell’incolpato.
4) La terza censura di legittimità contenuta nel ricorso evidenzia supposti profili di travisamento fattuale da parte dell’amministrazione, atteso che l’adozione di modi scortesi e bruschi nei confronti del privato, vale a dire uno degli addebiti contestati all’incolpato, sarebbe stata esclusa dalle risultanze istruttorie.
Il ricorrente, però, non ha interesse a dedurre tale circostanza.
E’ vero, infatti, che, con l’atto di avvio del procedimento, erano state contestate all’incolpato due mancanze rilevanti agli effetti disciplinari: l’indebito rifiuto di rilasciare un documento cui il privato aveva diritto e il trattamento scortese e brusco riservato nell’occasione al richiedente.
Come si evince dalla relazione dell’amministrazione in atti, però, l’esame disciplinare non consentiva di pervenire a valutazioni certe in ordine all’effettiva adozione di modalità improprie di comportamento (i modi scortesi e bruschi) da parte del sottufficiale, cosicché veniva meno la relativa accusa.
Il provvedimento disciplinare, in effetti, fa esclusivo riferimento al rifiuto di rilascio del documento, condotta di per sé idonea a giustificare la sanzione.
5) Sono manifestamente privi di pregio i rilievi critici, contenuti nel quarto motivo di ricorso, in ordine all’asserita mancanza del presupposto giuridico della sanzione, dal momento che il ricorrente non sarebbe stato tenuto al rilascio del documento chiesto dal privato.
E’ pacifico, infatti, che l’adempimento in questione fosse doveroso per il ricorrente, ai sensi dell’art. 2 del d.P.R. n. 105/2000, essendo del tutto irrilevante la circostanza che l’autovettura cui si riferiva la carta di circolazione sottratta fosse stata rinvenuta dai carabinieri di altra stazione.
L’esponente rimarca, in subordine, la scusabilità dell’errore, tale da escludere l’elemento soggettivo dell’illecito, trattandosi di disposizione recentemente entrata in vigore.
Tale giustificazione, però, produce l’effetto non voluto di accentuare il giudizio di disvalore in ordine alla condotta del militare.
Come bene evidenziato nella relazione dell’amministrazione, infatti, in presenza di difficoltà interpretative, il sottufficiale avrebbe dovuto chiedere opportuni chiarimenti ai colleghi dell’altra stazione interessata alla vicenda oppure ai propri superiori gerarchici.
I profili di negligenza correttamente ravvisati nella condotta del ricorrente, pertanto, non consistono tanto nell’aver interpretato erroneamente la disposizione de qua, bensì nell’essersi ostinato a rifiutare, senza acquisire le delucidazioni del caso, l’adempimento richiesto dal privato, cagionando al medesimo disagi e disservizi.
6) Quanto alle censure riferite al rapporto informativo relativo all’ultima parte del 2000, contenente un motivato giudizio di insufficienza, esso sarebbe inficiato, ad avviso del ricorrente, per invalidità derivata e per vizi propri.
Non sussiste, ovviamente, il primo profilo di illegittimità, stante la riscontrata infondatezza delle censure riferite alla sanzione disciplinare (e in disparte il fatto che il rapporto informativo si riferisce solo in piccola parte all’episodio sanzionato disciplinarmente).
I presunti vizi propri dell’atto sarebbero da ricondursi, secondo l’esponente, alla carenza di adeguati accertamenti che potessero giustificare il giudizio di insufficienza.
La doglianza è generica e non considera la discrezionalità di cui gode l’amministrazione in sede di valutazione del servizio reso dal militare.
Il sindacato giurisdizionale sul corretto esercizio di tale discrezionalità è consentito nel solo caso in cui emergano chiari indici rivelatori di un esercizio disfunzionale del potere amministrativo, id est nel caso di manifesta illogicità della valutazione o di carente motivazione della stessa.
Nessuno degli accennati profili è rinvenibile nella fattispecie in esame, dal momento che il giudizio insufficiente è supportato da una motivazione diffusa e ponderata ed appare immune, in relazione al contesto e ai mediocri precedenti di servizio del sottufficiale, da evidenti aspetti di irrazionalità.
7) In conclusione, il ricorso è infondato e deve essere respinto”.