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Giustizia Militare

Sentenze

Disobbedienza - Dovere di eseguire l’ordine di sottoscrivere le note caratteristiche

Guardia di finanza - Collusione in contrabbando - È reato militare - Competenza

Pena - misura - Potere discrezionale del giudice - Prescrizioni dell’art. 113 c.p.


a cura di Renato Maggiore

Disobbedienza - Dovere di eseguire l’ordine di sottoscrivere le note caratteristiche - Attinenza dell’ordine al servizio - Ricorre - Rifiuto condizionato - Presenza del dolo - Sussiste - Si configura il reato.
Tipo della norma che prevede la sottoscrizione - Ha carattere regolamentare - Contenuto dell’art. 173 c.p.m.p. - Non la richiama - Richiama in generale il caso di non ottemperanza all’obbligo - Quella norma regolamentare non può essere oggetto di questione di legittimità costituzionale.

(Cost., artt. 3, 23, 24; C.p.m.p., art. 173; D.P.R. 15.6.1965, n.1431 , art. 19)

Corte di Cassazione, Sez. 1^ pen. , 23 settembre 1999. Pres. Teresi, Rel. La Gioia, P.M. mil. Garino (conf.), in c. P.

Commette disobbedienza il carabiniere che rifiuta di sottoscrivere “per presa conoscenza” le note caratteristiche se non lo si assecondi nella richiesta di dare atto che sottoscrive solo per adempimento all’ordine. E tale ordine ha chiara attinenza al servizio per l’evidenza del disservizio conseguente al rifiuto di sottoscrivere.
Inammissibile è la questione di legittimità costituzionale della norma, che stabilisce l’obbligo del militare di firmare il documento relativo al rapporto informativo, essendo la medesima solo di natura disciplinare (1a).

Si legge quanto appresso nel testo della sentenza:
««Con sentenza pronunziata il 28/4/1998 il Tribunale militare di Verona ha condannato P.G. alla pena di mesi nove di reclusione militare per i reati di disobbedienza aggravata, insubordinazione, ingiuria.

Con sentenza di secondo grado pronunziata il 14/12/1998 la Corte Militare di Appello, sezione distaccata di Verona, ha assolto l’imputato dai reati di insubordinazione ed ingiuria, rideterminando in mesi due di reclusione militare la pena per il reato di disobbedienza aggravata e continuata (artt. 81 c.p., 173 e 47 nn. 2 e 4 c.p.m.p.) consistente nell’avere rifiutato di sottoscrivere “per presa conoscenza” le note caratteristiche e la dichiarazione di mancata redazione di documentazione caratteristica.

I giudici di primo e di secondo grado hanno ritenuto manifestamente infondata la eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 19 D.P.R. 15/6/1965, n.1431, che impone l’obbligo della sottoscrizione, trattandosi di norma regolamentare, sottratta come tale al sindacato della Corte Costituzionale.

Nel merito la Corte di appello ha desunto la prova della responsabilità per il reato di disubbidienza dalle concordi ed univoche dichiarazioni dei testi sul rifiuto dell’imputato di obbedire al comandante della Compagnia che gli aveva ordinato di sottoscrivere prima le note caratteristiche e poi la dichiarazione di mancata redazione di documentazione caratteristica. In ordine all’elemento soggettivo del reato ha ritenuto sufficiente il dolo generico consistente nella consapevole volontà di rifiutare l’obbedienza ad un ordine del superiore, attinente al servizio.
Contro la sentenza di appello il difensore dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione deducendo, con tre motivi, nell’ordine:

  1. la illegittimità costituzionale dell’art. 19 del D.P.R. 15/6/1965, n. 1431, nella parte in cui stabilisce che il militare deve firmare il documento relativo al rapporto informativo, per contrasto con gli artt. 3, 23 e 24 Cost.;

  2. la erronea applicazione dell’art. 173 c.p.m.p. perché il rifiuto della sottoscrizione non ha creato alcun disservizio e deve ritenersi sanzionabile soltanto in via disciplinare a sensi dell’art. 38 c.p.m.p.;

  3. la erronea applicazione dell’art. 42 c.p. in ordine al dolo, avendo l’imputato manifestato più volte la volontà di obbedire, chiedendo solo che fosse dato atto, a causa del contenuto negativo delle note caratteristiche, che la sottoscrizione era apposta in adempimento di un ordine del superiore.

Motivi della decisione

La questione di legittimità costituzionale, dedotta con il primo motivo, è inammissibile perché, come ha già puntualmente rilevato la sentenza di appello, concerne non una legge o altro atto avente forza di legge (art. 134 Cost.) ma soltanto una norma regolamentare.

Per altro, nel caso concreto, la detta norma regolamentare non è presupposta o richiamata dalla norma incriminatrice (art. 173 c.p.m.p.) la quale punisce il rifiuto all’ordine del superiore, non già il mancato adempimento dell’obbligo di sottoscrizione previsto dal regolamento.
Per il resto il ricorso è infondato.

In particolare il secondo motivo contesta la “attinenza al servizio” della sottoscrizione, per presa conoscenza, da parte del militare, delle note caratteristiche, e ne deduce la insussistenza del reato contestato.

La censura è infondata perché la sottoscrizione ha la funzione di rendere certa ed incontestabile la avvenuta comunicazione al militare del contenuto delle note caratteristiche. È pur vero che il regolamento avrebbe potuto prevedere che, in caso di rifiuto di sottoscrivere, la comunicazione potesse risultare anche da una certificazione dell’ufficiale che vi ha provveduto, ad analogia di quanto avviene nel caso di rifiuto a ricevere la notifica di un atto da parte dell’ufficiale giudiziario. Tuttavia è incontestabile che la previsione della sottoscrizione per presa conoscenza tende a snellire la procedura di comunicazione e rendere incontestabile l’esatto adempimento dell’obbligo da parte del superiore e l’avvenuta tutela del diritto di conoscenza da parte del militare sottoposto. È certa pertanto la attinenza al servizio dell’ordine di sottoscrivere le note caratteristiche, così come è certo il disservizio che consegue al rifiuto di sottoscrivere.

Con il terzo motivo è stata invece eccepita la mancanza di dolo e la conseguente violazione dell’art. 42 c.p. in quanto l’imputato non avrebbe avuto la volontà di disobbedire all’ordine ma avrebbe voluto soltanto contestare il contenuto delle note caratteristiche. Egli in sostanza avrebbe voluto evitare che la sottoscrizione potesse essere interpretata come acquiescenza al contenuto negativo delle note.

Anche questa censura è infondata perché i giudici di appello hanno chiaramente precisato, richiamando il contenuto delle dichiarazioni dei testimoni presenti al fatto, che l’imputato ha reiteratamente disobbedito, in giorni successivi, all’ordine esplicito di sottoscrivere per presa conoscenza il documento contenente le proprie note caratteristiche, ordine impartito dall’ufficiale che aveva provveduto a comunicargli dette note.

La affermazione, ora contenuta nel ricorso, secondo cui l’imputato avrebbe nella sostanza manifestato la volontà di adempiere, sia pure a certe condizioni, piuttosto che quella di disobbedire, costituisce una mera allegazione difensiva in punto di fatto, contrastante con l’accertamento fatto dai giudici di merito.

Il ricorso deve essere perciò rigettato con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile la dedotta questione di legittimità costituzionale;
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali»».


Guardia di finanza - Collusione in contrabbando - È reato militare - Competenza - È del tribunale militare.
Connessione fra reati comuni e reati militari - Competenza - È del giudice ordinario solo se il reato comune sia più gravemente punito.
Procedimento penale - Applicazione di pena su richiesta delle parti - Effetti della richiesta - Rinunzia all’eccezione di nullità non attinente alla richiesta di patteggiamento - Rientra fra detti effetti.

(Cost., artt. 13, 25 co. 1 °, 102 co. 2°, 103 co. 3°; L. 9.12.1941, n. 1383, art. 3; C.p.p., art. 13)

Corte di Cassazione, Sez. 1^ pen., 26 ottobre 1999 (c.c.). Pres. Macrì, Rel. Campo, P.M. mil. Garino (conf.) in c. T.

Il reato del militare della Guardia di Finanza di collusione per frode alla finanza è reato militare, la cognizione del quale, anche per l’espressa lettera della legge n. 1983 del 1941, “appartiene ai Tribunali militari”.
In caso di connessione processuale fra reato comune e reato militare è competente per tutti il giudice ordinario solo se essa concerna reato comune più grave e reato militare meno grave.
L’applicazione della pena su richiesta delle parti proposta in dibattimento postula la rinunzia all’eccezione di nullità, se questa non sia relativa alla richiesta del patteggiamento (1b).

Si legge quanto appresso nel testo della sentenza:

  1. Con sentenza in data 10 novembre 1998 il Tribunale militare di Torino, riuniti i diversi processi, applicava, su conforme richiesta delle parti, a T. V., imputato quale ufficiale della Guardia di Finanza di tredici episodi di collusione per frode aggravata alla finanza (artt. 3 legge 9.12.1941 n. 1383 e 58 c.p.m.p.) la pena di anni uno e mesi dieci di reclusione, unificati tutti i reati per continuazione ed applicata la circostanza attenuante di cui all’art. 62-bis c.p. come prevalente sulle ritenute aggravanti.

  2. Ricorre per cassazione il T., il quale, per il tramite del proprio difensore, deduce erronea applicazione e violazione di legge (art. 606 co. 1 ° lett. b e c c.p.p. in relazione agli artt. 157, 171 co. 1° lett. d, 178 co. 1° lett. c, 179 co. 1°, 185 co. 1° e 429 co. 4° stesso codice), assumendo che il giudizio di primo grado è stato celebrato in mancanza della notifica all’imputato dei decreti di citazione a giudizio, in quanto i medesimi notificati ad uno dei suoi difensori presso il quale, peraltro, non aveva eletto domicilio.

    Si duole, inoltre, che il giudice militare non abbia previamente rilevato il proprio difetto di giurisdizione per i contestati delitti di collusione ovvero non abbia pregiudizialmente provveduto a sollevare la relativa questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 secondo periodo legge 9.12.1941 n. 1383 per contrasto con l’art. 103 co. 3° Costituzione.

    Infine, lamenta che il tribunale militare non abbia rilevato la propria incompetenza per connessione e affermato quella del tribunale ordinario subordinatamente all’esito della relativa questione di incostituzionalità dall’art. 13 co. 2° c.p.p. per contrasto con gli artt. 25 co. 1°, 102 co. 2° e 103 co. 3° Costituzione.

    Nelle more dell’odierna udienza il difensore del ricorrente depositava memoria difensiva, con la quale ulteriormente argomentava in ordine ai motivi del proposto gravame, facendo istanza per la discussione del ricorso in pubblica udienza.

  3. Il ricorso va dichiarato inammissibile, siccome manifestamente infondato.
    In via preliminare la Corte tiene a precisare che l’istanza di trattazione del ricorso in pubblica udienza è inammissibile, in quanto il vigente codice di rito, diversamente da quanto disposto dal quarto comma dall’art. 531 del codice del 1930, non prevede più tale istituto, ma soltanto precisa al secondo comma dell’art. 611 che la Corte, qualora non ritenga di dichiarare l’inammissibilità del ricorso così come richiesto dal requirente procuratore generale, ne dispone la trattazione in udienza pubblica, sempreché ci si riferisca a ricorsi la cui sede naturale è quella pubblica.

    Passando all’esame dei motivi di gravame è opportuno ribadire - a prescindere dal rilievo in fatto che l’imputato, avendo rilasciato al proprio difensore la procura speciale per addivenire al c.d. patteggiamento, era a conoscenza della fissazione dell’udienza per la trattazione dei processi a suo carico - il costante insegnamento di questa Corte, secondo il quale l’applicazione della pena su richiesta delle parti, proposta - come nella fattispecie che ci occupa - all’udienza fissata per il dibattimento, postula la rinuncia a far valere qualunque eccezione di nullità degli atti del procedimento diversa da quelle relative alla richiesta di patteggiamento e al consenso ad essa prestato, di guisa che l’imputato non può dedurre in sede di ricorso per cassazione la nullità del decreto di citazione a giudizio.

    Relativamente agli altri due motivi di ricorso la Corte - prescindendo dalla manifesta infondatezza delle rilevate questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3 legge 9.12.1941 n. 1383, già dichiarata tale dalla Corte costituzionale con ordinanza n. 539 del 10.5.1988 (con la quale si affermava la legittimità costituzionale della scelta del legislatore ordinario con la posizione della norma in questione, che sanziona penalmente non soltanto il venire meno al vincolo di fedeltà incombente su tutti coloro che esercitano pubbliche funzioni, ma anche la violazione di quei particolari doveri inerenti alla tutela degli interessi finanziari dello Stato, la cui cura è istituzionalmente affidata al corpo della Guardia di Finanza) e dell’art. 13 co. 2° c.p.p., nella parte in cui esclude, in caso di connessione tra reati comuni e reati militari, la competenza del giudice ordinario in presenza di reato militare più grave di quello comune, atteso che la regola prescelta dal legislatore ordinario (competenza del giudice ordinario soltanto nella ipotesi di connessione tra reato comune più grave e reato militare meno grave) risponde a criteri di ragionevolezza demandati alla piena discrezionalità del medesimo, non prevedendo la vigente Costituzione alcun principio che impone la trattazione unitaria di reati connessi - ne rileva la manifesta infondatezza.

    Infatti, con il proposto ricorso si censura il mancato rilievo d’ufficio da parte del tribunale militare delle suddette questioni di legittimità costituzionale, al cui eventuale esito positivo, detto giudice avrebbe dovuto dichiarare la propria carenza di giurisdizione per i reati addebitati al ricorrente.

    In tal modo si viene a censurare, inammissibilmente, la mancata attivazione ufficiale, e non su specifica richiesta di parte, del giudice in ordine ad asserite questioni di illegittimità costituzionale, che, comportando una valutazione demandata alla interiore capacità logico-giuridica del decidente - la cui omissione non risulta processualmente sanzionata - ma non esternata da costui in positive argomentazioni motivazionali facenti parte del provvedimento gravato, non può essere posta a fondamento dei motivi di ricorso, non rientrando nel contenuto tipico della sentenza impugnata, nè costituendo carenza di motivazione della stessa per non essere state le relative questioni sottoposte all’esame del decidente.

    Il ricorso, pertanto, s’appalesa manifestamente infondato e, in quanto tale, va dichiarato inammissibile con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dall’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali e al versamento di sanzione pecuniaria che, in considerazione delle evidenti insussistenza e temerarietà delle argomentazioni poste a sostegno del gravame, si determina in quella di due milioni di lire.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di lire due milioni a favore della cassa delle ammende»».


Pena - misura - Potere discrezionale del giudice - Prescrizioni dell’art. 113 c.p.- Relativa indicazione analitica a cura del difensore - Omesso riscontro specifico in sentenza - Globalità dell’implicito vaglio - È sufficiente in particolare per pena prossima al minimo edittale.

(C.p. art. 133)

Corte di Cassazione, Sez. 1^ pen. (c.c.), 21 settembre 1999. Pres. Pirozzi, Rel. Marchese, P.M. mil. (conf.) in c. D.

Gli elementi previsti dalla legge per la dosimetria penale all’art. 133 C.P. deve ritenersi siano stati dal giudice tenuti in conto anche se non specificamente indicati dalla sentenza in dettagliato vaglio, ma globalmente richiamati, e ciò in particolare quando la sanzione inflitta in concreto sia prossima al suo minimo in astratto, ciò valendo pure se dalla difesa analiticamente precisati (1c).

Si legge quanto appresso nel testo della sentenza.
««Con sentenza del 27 settembre 1997, il Tribunale militare di Torino, previa concessione di circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata aggravante, ha condannato il soldato A.M. D. alla pena di otto mesi di reclusione militare avendolo ritenuto colpevole del reato di diserzione aggravata (artt. 148 n. 2 e 154 n. 1 cod. pen. mil. di pace) commesso dal 10 giugno 1994.

Sul gravame proposto dall’interessato, la sezione distaccata in Verona della Corte militare di appello, con sentenza del 21 gennaio 1999, ha ridotto a quattro mesi di reclusione militare la pena inflitta dal primo giudice confermando, nel resto, la pronuncia impugnata.

Avverso tale decisione, il D. ha proposto il ricorso per cassazione che viene ora alla cognizione di questa Corte.
- Osserva in
DIRITTO
Con i motivi di impugnazione, il ricorrente, denunciando l’erronea applicazione dell’art. 133 cod. pen., sostiene che la Corte militare ha irrogato una pena eccessiva senza considerare la sua giovane età, la sua condotta, il suo comportamento processuale, nonché i due periodi di detenzione sofferti che avevano comportato un forzato abbandono dei suoi doveri militari.

Le censure sono manifestamente infondate.

Ed invero, la determinazione della misura della pena tra il minimo ed il massimo edittale rientra nell’ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il suo compito anche se abbia valutato intuitivamente e globalmente gli elementi indicati nell’art. 133 cod. pen. Ne consegue che, per il corretto adempimento dell’obbligo della motivazione, specialmente quando la sanzione irrogata, come nel caso in esame, è prossima al minimo edittale, è sufficiente il richiamo al suddetto articolo, dovendosi ritenere che le eventuali argomentazioni o le risultanze non espressamente esaminate, ancorché poste in rilievo dal difensore, nell’implicito raffronto con gli elementi ritenuti fondamentali, devono considerarsi semplicemente disattese e non pretermesse.

Il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento, a favore della cassa delle ammende, della somma che, attesa la pretestuosità dell’impugnazione, viene determinata in £. 1.000.000.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento della somma di £. 500.000 a favore della Cassa delle ammende»».