Giustizia e storia metodologie a confronto (1)

  




Antonino Intelisano

Procuratore Generale Militare della Repubblica
presso la Corte Suprema di Cassazione







 
1. Introduzione

Il rapporto tra storiografia e giurisprudenza, tra l’attività dello storico e quella del giudice, è stato al centro, negli anni scorsi, di riflessioni metodologiche che, pur non essendo connotate da profili di novità - si pensi alla non dimenticata lezione di Piero Calamandrei del 1939 - sono state volte ad approfondire i rispettivi paradigmi, intesi, secondo la moderna accezione epistemologica, come insiemi delle teorie, dei principi e delle procedure condivise nei due distinti ambiti disciplinari.
È noto che la tendenziale pervasività della giurisdizione, in sede civile e penale, costituisce, in generale, una peculiare connotazione delle società complesse, in cui l’obiettiva ipertrofia delle regole, tendenti a disciplinare i rapporti interpersonali e a governare contrapposti interessi sezionali, trova nella giustizia come apparato momenti di inveramento, di attuazione e di composizione.
Nelle dinamiche di tipo contenzioso accade sempre più frequentemente che al giudice sia demandato l’esame di questioni presupposte, conseguenti o collaterali rispetto alla specifica domanda di giustizia. Certo, le valutazioni giuridiche che non investono direttamente il petitum sono svolte incidenter tantum, come recita l’accoppiata avverbiale dei manuali istituzionali di procedura, ma ciò non toglie che le pronunce richiedano, in qualche caso, ampie e accurate ricostruzioni, la necessità di “letture” sincroniche e diacroniche, in una unitaria configurazione tra testo e contesto di vicende sociali di ampio respiro.
Nella “comunicazione interdisciplinare”, nell’accezione della teoria dell’informazione, almeno due sono i profili di base enucleabili: l’utilizzazione in sede giuridica di sicure acquisizioni storiografiche e, per converso, la valutazione in sede ricostruttiva e analitica, di provvedimenti giudiziari quali declinazione di particolare significatività, quando ritenuti idonei a trascendere il frammentismo tipico del contenzioso legale.
A me pare che la fisiologia dei sistemi sia lontana dai rapporti, definiti “intricati e ambigui”, tra il giudice e lo storico, che, con qualche sovraccarico di emotività, sono stati ravvisati “ripetutamente”; essa ha nel conto, come dato prevedibilmente ineliminabile, qualche sconfinamento dall’area di pertinenza, considerato che nell’ambito delle scienze sociali l’interazione delle varie discipline costituisce fattore tendenzialmente refrattario alla rigidità di confini, pur nella consapevolezza di possibili fraintendimenti, tali da ingenerare disaccordi significativi.

 
2. La storia tra scienza e narrazione

Un’analisi comparativa che aspiri alla completezza, in linea di principio, dovrebbe muovere dai problemi connessi con lo spinoso profilo dell’oggettività della conoscenza storica. Rinuncio a tentare di arrampicarmi sulle spalle dei giganti e mi limito, con un drastico riduzionismo, all’alternativa tra formule riassuntive: la storia come narrazione, in passato vista anche come “arte”, o la storia come scienza, secondo una disputa terminologica senza fine. Sorvolando sui profili diacronici della questione, oggi vi è una pressoché generale convergenza che, pur a fronte di sfumature distintive, individua nella storiografia una scienza del tutto particolare, lontana dalle scienze esatte, connotata da procedure, tecniche e metodi peculiari, non necessariamente esclusivo appannaggio di chi, per dirla con Marc Bloch, ha optato per il “mestiere di storico”.
È ricca la panoplia delle teorie in materia storiografica: mera narrazione dei fatti nudi e crudi, priva di interpretazione e commento; spiegazione degli eventi (con implicita assimilazione alle scienze esatte e naturali); comprensione degli accadimenti (con connotazioni tipiche delle scienze storico sociali); collocazione della spiegazione storica nell’ambito dei modelli deduttivi; prospettazione di una utilizzazione della cibernetica previa una rigorosa assiomatizzazione e formalizzazione della storiografia; rinuncia a qualsiasi tentativo di razionalismo e affermazione in campo storiografico di un anarchismo epistemologico.
Riassumendo con disinvolta semplificazione dei profili diacronici: la storiografia, collocata inizialmente nei ranghi dell’arte, acquisisce un’autonomia disciplinare che coniuga elementi narrativistico-letterari con riflessioni logiche, è lambita da correnti di neopositivismo logico ed è oggetto, infine, di una visione che, a seguito della rilevazione della moltitudine di idee, procedimenti, preferenze e avversioni che resistono a ogni tentativo di unificazione teorica, quasi a completamento di un processo circolare, torna a paragonare l’attività dello storico, per l’inventiva che essa richiede, alla stregua della creazione artistica.
Per quel che vale mi colloco in posizione adesiva alle motivazioni programmatiche di March Bloch, che Miguel Gotor ha citato come viatico della sua ricerca sul “Memoriale della Repubblica”, ossia sugli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere politico italiano: “Una parola domina e illumina i nostri studi: comprendere. Non diciamo che il buono storico è senza passioni ; ha per lo meno quella di comprendere. Parola, non nascondiamolo, gravida di difficoltà, ma anche di speranze”. E ancora: “Non comprendiamo mai abbastanza”.
Per converso è giocoforza rilevare che il processo è una complessa macchina retrospettiva, anzi, per dirla con Ferrajoli, è il solo caso di esperimento storiografico: “in esso le fonti sono fatte giocare de vivo, non solo perché sono assunte direttamente, ma anche perché sono messe a confronto tra loro, sottoposte ad esami incrociati e sollecitate a riprodurre, come in uno psicodramma, la vicenda giudicata”.
E Capogrossi: “Il processo è la vera e sola ricerca del tempo perduto. Il giudice deve rifare presente il passato”.

 
3. Il giudice e lo storico a confronto

Ma le analogie tra la figura del giudice e quella dello storico sono più apparenti che reali, anche se il giudice e lo storico muovono da un input congetturale, soggetto a conferme e confutazioni. Il primo deve rispondere a una domanda posta dall’attore nel processo civile o dal p.m. nel processo penale. Collegando un fatto a una o più norme, è obbligato a dare una risposta di giustizia.
Il non liquet non ha diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento e il giudice deve comunque pronunciarsi, se non vuole incorrere nel reato di omissione di atti d’ufficio. Il secondo, lo storico, è chiamato a comprendere e non a giudicare; ha scelto l’oggetto della ricerca; è libero nella selezione delle fonti di prova; può astenersi da considerazioni finali limitandosi alla narrazione.
Entrambi possono partire da un’abduzione: per risalire dall’effetto alla possibile causa, formulano un’ipotesi, ossia trovano una congettura da verificare. Entrambi, lungi dall’essere di fronte e sistemi assiomatizzati, fanno uso di tecniche discorsive proprie della “nuova retorica”, che, com’è noto, non è una disciplina esornativa del discorso ma una tecnica argomentativa in funzione di problem solving, che si avvale anche di un apparato “topico”, di massime di esperienza. Queste ultime costituiscono, in certo modo, per il giurista la conferma che non solo negli ordinamenti di common law, ma anche in quelli di derivazione latina, l’essenza del diritto, per dirla con il giudice Oliver Wendell Holmes, non è la logica ma l’esperienza.
Se il giudice deve emettere la sentenza, secondo un iter procedurale che comprende i mezzi di ricerca della prova, l’assunzione e la valutazione degli elementi di conoscenza acquisiti, pur sotto l’usbergo del principio del libero convincimento, lo storico - come ha rilevato il Febvre - “non si muove vagando a caso attraverso il passato, come uno straccivendolo a caccia di vecchiumi, ma parte con un disegno preciso in testa, con un problema da risolvere, un’ipotesi di lavoro da verificare”.
È difficile, per chi come noi rifiuta la concezione della storia come una narrazione (Croce e Veyne tra gli altri) e ritenga, invece, che essa svolga solo funzioni di interpretare e spiegare, non concordare con il Momigliano, secondo il quale le operazioni che lo storico si trova solitamente ad affrontare sono di quattro tipi:
a) lo storico ha dinanzi a sé un fatto sicuro, che tuttavia non è in grado di spiegare;
b) accerta che qualcosa è accaduto ma deve capire esattamente cosa;
c) si trova dinanzi all’affermazione di un fatto di cui è dubbia la certezza e, posto che l’acclari, egli si trova a scegliere tra diverse spiegazioni;
d) infine, si trova dinanzi all’affermazione di un evento che, ove risultasse vera, potrebbe essere spiegata in un unico modo.
In posizione di centralità sull’attività del giudice e dello storico è la ricerca delle cause, connotate da marcate differenze metodologiche.
Partirò da una bella pagina di Gadda, il quale, descrivendo il Commissario di polizia Ingravallo alle prese con il “pasticciaccio brutto de via Merulana” gli attribuiva una complessa concezione secondo la quale “ (…) le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. (…) L’opinione che bisognasse “riformare in noi il senso della categoria di causa” quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente. (…) La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (…)”.
È evidente che se il commissario-filosofo avesse dato ingresso nei suoi rapporti di servizio alle sue “teoretiche idee” sarebbe certamente incorso quantomeno in forti reprimende gerarchiche, perchè non funzionali al problema del collegamento causale di un comportamento umano e un dato evento, come prima tappa alla quale seguirà la valutazione dell’elemento intellettivo dell’azione o dell’omissione, tale da rendere applicabile, nel concorso degli altri presupposti, la norma penale.
In altri termini, al giudice penale non interessa - secondo l’efficace sintesi di Federico Stella - “ciò che può avere rilievo per altri tipi di considerazione, come quelle della filosofia, delle scienze della natura, della storia o di altre scienze della cultura. Non gli interessa conoscere l’intera situazione, nella miriade dei suoi dettagli, cioè la causa secondo il punto di vista della filosofia della scienza, che ha preceduto l’evento concreto, così come non gli interessa sapere quali sono le condizioni antecedenti storicamente significative o le condizioni rilevanti dal punto di vista della fisiologia, della biologia, della fisica, della psicologia e via dicendo. Il giudice penale si appaga di accertare se, senza la condotta umana, l’evento si sarebbe o non si sarebbe verificato”. Il suo parametro di riferimento è l’art. 40 del codice penale, che, nella consapevolezza della possibile concorrenza di più fattori causali nella produzione di un evento, dedica al fenomeno della disciplina delle condizioni preesistenti, simultanee o sopravvenute l’art. 41. Le chiama “concause”, che non escludono il rapporto di causalità tra la condotta (azione od omissione principale) e l’evento. Solo le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. In tal caso se l’azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sé un reato si applica la pena per questo stabilita.
Non è questa la sede per approfondire i problemi che nascono dalle formulazioni normative, non particolarmente felici, che in sede esegetica ed applicativa hanno dato luogo alle teorie della conditio sine qua non, della causalità adeguata, della causalità umana e, per le concause, all’esclusione del nesso nei casi in cui l’evento lesivo non sia inquadrabile “in una successione normale di accadimenti”.
Ben più estesa (e indeterminata) è la concezione della causa, anzi delle cause, per lo storico, che è interessato a comprendere le ragioni profonde dei modi di fare e di agire degli uomini, senza barriere metodologiche e senza giudicare.
Altro profilo di differenziazione concerne, nell’ambito della causalità, i criteri che governano la valutazione delle prove e la decisione del giudice. Nel processo civile i richiami normativi concernono: le regole di esperienza (art. 115, comma 2, c.p.c.); il prudente apprezzamento delle prove (di regola proposte dalle parti o dal pubblico ministero), e del contegno delle parti nel processo (art. 116 c.p.c.); la disciplina delle presunzioni (conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato), che lascia le presunzioni non stabilite dalla legge alla prudenza del giudice (art. 2729 c.c.); i criteri di massima per la redazione della motivazione della sentenza (art. 118 disp. att. c.p.c.).
Nel processo penale, nel nuovo processo penale, le regole sono più stringenti: esperienza, scienza, logica devono concorrere al libero convincimento del giudice, che, non ha, quindi, una connotazione intuizionistica, ma deve essere la conseguenza di un ragionamento probatorio in cui si combinano schemi di logica abduttiva (ipotesi probabile), induttiva e deduttiva. Le prove si formano nel contraddittorio delle parti dinanzi al giudice terzo e imparziale, secondo regole dirette ad assicurare la parità e il diritto alla difesa. Un sistema di sanzioni processuali è correlato alla nullità, assoluta o relativa, degli atti compiuti fuori dalla tipologia e dalla tempistica previste dalla legge e alla loro inutilizzabilità, secondo una categoria residuale propria del diritto processuale penale. In definitiva, la formula del libero convincimento - sorta durante la Rivoluzione francese per porre fine al sistema delle “prove legali” - è, in realtà, astretta da “lacci e lacciuoli” per il giudice, in funzione garantistica per il soggetto sottoposto a indagine o per l’imputato, mentre trova per lo storico una maggiore espansione semantica. Il possibile risultato è che la “verità” processuale può non coincidere con la “verità” storica, rimanendo al di sotto della soglia di quest’ultima.

 
4. L’accertamento degli eventi storici in giudizio e il giudizio dello storico

Considerate le notevoli differenze tra il giudice e lo storico - pur non insistendo sul rilievo che al primo spetta giudicare e al secondo “comprendere”, nell’accezione di Bloch - siamo ora forse in condizioni di tentare di rispondere a un quesito: può uno storico, a seguito di investigazioni extra-processuali o comunque operazioni logico esplicative, verificare la correttezza dei risultati raggiunti da un giudice in relazione a un evento determinato?
La prima risposta, senza particolari riflessioni, è: certamente sì, considerata la portata del diritto costituzionale di libera manifestazione del pensiero, che non tollera limiti e condizioni. La risposta non cambia se, in luogo dello storico, consideriamo il giornalista. Alcuni “distinguo” sono, tuttavia, necessari: se la “ragion pratica”, secondo l’accezione del Perelman, è comune al ragionamento del giudice e dello storico, con i corollari di controllo e rigore nelle deduzioni, si è assistito talvolta a discutibili “campagne” quali declinazioni di trucidi processi mediatici, alternativi a quelli legali, con una utilizzazione di dati in funzione fortemente condizionata dalle ideologie. Ora, se è vero che lo storico è “per metà giudice e per metà scrittore”, secondo una efficace definizione, l’attributo della terzietà, della posizione super partes, è richiesto non solo per il magistrato, ma anche per lo storico.
Quest’ultimo deve peraltro guardarsi dai bias, i tunnel della mente secondo le nuove acquisizioni delle scienze cognitive, che, anche inconsapevolmente, possono condizionare le valutazioni per motivi di solidarietà amicale o ideologica verso persone inquisite o comunque coinvolte.
Accenniamo ora ai rilievi critici che, soprattutto negli ultimi tre decenni, sono stati rivolti alla magistratura. Rammento almeno tre filoni: la lotta all’eversione politica alla fine degli anni Settanta e negli anni Ottanta, “Mani pulite” e le collusioni tra politica e organizzazioni criminali di tipo mafioso.
Per quanto concerne la lotta all’eversione politica da destra e da sinistra è stata spesso criticata la tendenza della magistratura a fare, per usare una icastica espressione di Ferrajoli, poi utilizzata anche fuori dal contesto in cui essa era nata, “storiografia giudiziaria”. La cultura del sospetto, la filosofia della diffidenza, la tecnica dell’ipotesi multipla: si tratta di slogan usati contro la magistratura requirente protesa all’analisi critica degli eventi nel tentativo di individuare dietro le cause apparenti i veri disegni nascosti.
Nel contrasto e nella punizione della corruzione, centrali nel fenomeno “mani pulite”, è stata spesso ravvisata nella magistratura “un’istituzione convinta che non fosse necessario limitarsi a una funzione giurisdizionale, ma motivata a svolgere un ruolo salvifico di contropotere militante, una funzione di supplenza di un ceto politico irrimediabilmente inadeguato e corrotto” (Gotor).
Aspre e articolate sono state le critiche di fuoriuscita dai limiti della giurisdizione per investire un’area sociologico-politica che non le compete per quanto concerne le collusioni tra politica e criminalità organizzata.
Espressione sintomatica di tali problematiche è stata in maniera ricorrente la declinazione “tecnico-giuridica” del fenomeno riassunta nel concorso esterno all’associazione mafiosa. I casi più noti sono i processi Andreotti, Mannino e, più di recente, Dell’Utri. E’ sintesi condivisibile la motivazione secondo la quale la criminalità organizzata è riuscita a penetrare in profondità la società civile e la politica, condizionando entrambe. Le incriminazioni per concorso esterno in associazione mafiosa, al di là delle aspre polemiche, sono tentativi di recidere i fili “che legano il mondo del crimine con le connivenze, gli ammiccamenti e le piccole e grandi contiguità”. Il problema specifico in questi ambiti di intervento repressivo è quello solito in diritto penale: il rapporto di causalità tra una condotta e un evento a fronte del principio di stretta legalità.
In altri termini, non sempre manifestazioni di un fenomeno certo da un punto di vista dell’antropologia culturale e sul piano sociologico possono essere sussunte nell’ambito della responsabilità penale, pur rimanendo suscettibili di valutazione sul piano etico o nell’ambito di quella particolare responsabilità allo stato diffuso che è la responsabilità politica.
La Corte di cassazione, a sezioni unite, con la celebre sentenza Mannino del 2005, ha fatto chiarezza sulle coordinate del concorso esterno, che rimane tuttavia un istituto giuridico controverso, tormentato e oggetto di complesse dispute in cui le questioni tecnico-giuridiche sono spesso emblematiche di contrapposte e irriducibili visioni del mondo.
Un capitolo a sé concerne la vicenda delle stragi naziste in Italia.
Note circostanze legate alla mia vita professionale mi inducono a un esercizio di self restraint per intuibili motivi di opportunità. Mi limiterò solo ad alcune notazioni strettamente collegate al tema.
Il tempo trascorso fra i tragici eventi e l’inizio dei procedimenti penali dopo l’…esumazione dei fascicoli occultati ha giocato un ruolo negativo rispetto alle diffuse istanze di giustizia. E’ noto che in diritto penale la morte del reo estingue il reato. Al giudice non è consentito, pertanto, impiegare risorse umane e finanziarie dello Stato per vicende estranee all’accertamento dei presupposti della punibilità in concreto.
Ma c’è un altro profilo da segnalare. Se si escludono i processi a carico di Priebke, Hass e Seifert, gli altri imputati sono stati giudicati, o sono ancora sotto processo, in absentia o, come si dice con locuzione tecnica, in contumacia. Ciò perché la Germania non ne concede l’estradizione per motivi legati al proprio ordinamento interno (segnatamente per la non retroattività della norma che ha abrogato il divieto di estradizione per i cittadini tedeschi, secondo la garanzia affine a quella prevista in generale in Italia dall’art. 2, comma 4, c.p.).
I procedimenti già celebrati e quelli in corso sono pertanto a carico di soggetti, molto avanti negli anni, assenti. Con una icastica, anche se ingenerosa locuzione, si è definita tale situazione come “giudizio agli ectoplasmi”.
Date le riferite circostanze, più che di processi in senso stretto, si tratta della ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in Italia, anche con l’apporto dell’opera di storici, con la valenza polimorfa della ritualità civile, storicamente inveratasi anche in passato per altre vicende.
In realtà è venuto meno anche l’ultimo, concreto aspetto sanzionatorio di tali processi, collegato alla condanna al risarcimento dei danni dallo Stato germanico, in base al principio di immedesimazione organica per fatti di reati commessi da propri militari nell’esercizio di attività belliche. La Corte internazionale di giustizia, su ricorso tedesco, con la sentenza del 3 febbraio 2012, ha dichiarato contrarie al diritto internazionale consuetudinario, per violazione del principio par in parem non habet jurisdictionem, le sentenze di condanna al risarcimento dei danni pronunciate in Italia. E ai nostri organi giurisdizionali non rimane che il dovere di ottemperanza.

 
5. Considerazioni conclusive

È tempo di concludere. Abbiamo iniziato ricordando Calamandrei. Chiudo con una sua citazione, a mo’ di viatico sia per il giudice sia per lo storico: “Le strade del giudice e dello storico, coincidenti per un tratto, divergono poi inevitabilmente. Chi tenta di ridurre lo storico a giudice semplifica e impoverisce la conoscenza storiografica. Ma chi tenta di ridurre il giudice a storico inquina irrimediabilmente l’esercizio della giustizia”.



(1) - Testo della conferenza svolta nell’ambito del Convegno “Ricostruire il passato per costruire il futuro: storia e memoria nel prisma del diritto” (Università Roma Tre, 31 maggio - 1° giugno 2012).