I Codici Penali Militari vecchi problemi e nuove proposte

Giuliano Ferrari (*)

1. Premessa

Che cosa è l’ordine sociale militare? Cercare di riassumere in 20 minuti un argomento di questo genere è impresa titanica, talché mi limiterò a procedere per grandi linee, e certamente non affronterò gli innumerevoli argomenti particolari che sono posti dai nostri codici penali militari, ma resterò sul generale. Correttamente l’argomento della legge penale militare è stato oggi inserito per ultimo nella III Sessione, perché la legge penale è il punto di arrivo, quello terminale nella definizione degli strumenti giuridici preposti alla garanzia di qualunque ordine sociale, incluso quello militare. Prima bisogna definire questo ordine sociale, poi si possono stabilire precetti penali, sanzioni penali e metodi per applicarli. Ma che cosa è l’ordine sociale, e che cosa è in particolare l’ordine sociale di uno strumento militare?

In Italia siamo portati a considerare l’ordine sociale esclusivamente in termini di norma: ma Condorelli(1) contestava questa equazione, perché secondo lui l’ordine sociale è anzitutto ethos e praxis, e solo successivamente diviene norma. Ciò è straordinariamente vero per l’ordine sociale militare. Niklas Luhmann, in un’opera a ciò interamente dedicata(2) afferma che l’ordine sociale è possibile solo attraverso modelli sociali, attraverso finzioni o metafore oppure attraverso concetti che siano autogiustificativi: Selbreferenz, è il termine impiegato in proposito dalla dottrina tedesca.


2. Sufficienza o ipertrofia della norma

Ho fatto questa premessa per spiegare quanto sia illusorio l’intento di definire un ordine sociale, in special modo militare, soltanto in termini di norme. Di ciò si sta vieppiù rendendo conto l’intero mondo del diritto: non per nulla è stato avviato, anche nella pubblica amministrazione, un vasto processo di delegificazione e deregolamentazione. In tutti i campi, le regole deontologiche e di comportamento vengono affidate a strumenti giuridici sostanzialmente extra ordinem, come i codici di comportamento o deontologici, o di autoregolamentazione: proprio laddove, in ambito militare, gli aspetti etico-deontologici sono stati meticolosamente espurgati dal regolamento di disciplina militare vigente, certamente in virtù della sua natura di regolamento di esecuzione e non più di regolamento indipendente.

Tutto ciò ha lasciato un vuoto che sicuramente la norma penale è l’ultima, per idoneità, a poter riempire; anzi: senza questi riferimenti deontologici, gran parte delle varie norme penali cosiddette “aperte”, per esempio quelle che fanno riferimento all’onore militare, rischia di essere inapplicabile. Inoltre, la giurisprudenza penale è ancA9?9† ora molto restia a riconoscere rilevanza penale al contenuto di tali codici(3) di comportamento, ove non recepiti in leggi o regolamenti propriamente e formalmente intesi. È proprio per la specificità del nostro ordinamento giuridico che la delegificazione avviata nella Pubblica Amministrazione non può tanto agevolmente estendersi all’ordinamento militare, che soffre, anche nella sua parte penale, di un’ipertrofia legislativa senza riscontri negli ordinamenti esteri: ipertrofia che, nel novero delle buone intenzioni, aveva orientato tutti ad operare verso la costruzione di un “diritto penale leggero”, che peraltro solo in parte sarà possibile conseguire. Pure, un rimedio a questa ipertrofia, né solo nel settore penale, è indispensabile: “Corruptissima republica, plurimae leges”, ammoniva Tacito.


3. Frammentarietà della disciplina legislativa

Ma non è solo l’ipertrofia che viene qui in rilievo. Un altro, consistente problema è la frammentarietà della disciplina legislativa nelle sue parti amministrative, disciplinari e penali. Stato giuridico, avanzamento, regolamento di disciplina, sanzioni disciplinari di corpo e di stato, diritto penale sostanziale e processuale soffrono ormai da decenni di una divaricazione reciproca, da cui risulta la loro sostanziale incoerenza e la loro non rispondenza ad un disegno unitario. Ciò è in larga misura frutto di quell’ormai secolare processo storico di assorbimento del diritto militare nell’ordinamento giuridico generale, bene descritto dal Bachelet nella sua fondamentale e tuttora insuperata opera(4), che ha decretato la fine di ogni prospettiva istituzionistica del diritto militare. Il fenomeno non è certo solo italiano: ma in ben pochi altri Paesi esso ha raggiunto le proporzioni nostrane. Da noi è avvenuto che ciascuna branca del diritto militare è stata progressivamente assorbita dalla corrispondente branca della disciplina generale(5).

È stato un fenomeno centrifugo di dimensioni colossali, che ha privato l’ordinamento militare di ciò che gli sarebbe stato più necessario, e cioè l’intima coerenza di tutte le sue partizioni. Non è solo un problema di semplice coerenza, da valutare nella prospettiva di Jemolo, laddove ci insegnava che “l’incoerenza toglie rispetto alle leggi”(6): per un qualsiasi strumento militare è un fondamentale requisito di efficienza. Ma c’è di più: la coerenza tra la disciplina penale e quella amministrativa è essenziale perché la norma penale possa ispirarsi ad un principio di sostanziale sussidiarietà; principio che, accanto a quelli di offensività e di sufficiente determinatezza, dovrebbe essere il faro di ogni moderna legislazione penale. Invidio, in proposito, la legislazione dei Paesi anglosassoni, p. es. l’Army Act britannico, od ancor più il National Defence Act canadese del 1985, ove in un solo documento legislativo di 306 articoli, unitariamente concepito, sono compendiate tutte le norme amministrative, disciplinari, penali e processuali applicabili in pace e in guerra ai militari canadesi.

Non è un caso che questi Paesi siano distinti da eserciti professionistici: non è infatti solo questione di common law o di civil law: l’unitarietà della normativa è un’esigenza primaria degli eserciti di professione. È bensì vero che il confronto con le legislazioni estere in Italia è reso difficile, soprattutto per l’immanenza di una Costituzione rigida come la nostra e di una giurisprudenza costituzionale che (è un mio parere personale) troppo spesso è stata invasiva e talvolta, forse, anche distruttiva(7): pure, il confronto con l’esterno (nemico o alleato) dovrebbe essere il primo riferimento per un esercito destinato ad intervenire attivamente anche in operazioni conflittuali, e soprattutto con un elevato grado di integrazione con gli eserciti alleati, ed ancor più europei. La cosiddetta “convergenza”, talvolta proposta anche con riferimento alla realizzazione militare della PESD, dovrebbe essere anche e soprattutto giuridica, e se ciò richiedesse anche un ritocco costituzionale, non dovrebbe trattarsi di un tabù insormontabile.


4. Duplicità dei codici di pace e di guerra

Un terzo problema ormai storico è costituito dalla duplicità dei codici di pace e di guerra, duplicità che è ormai un residuato storico esclusivamente italiano. Nessuno dei principali codici penali militari esteri (francese, spagnolo, inglese(8), statunitense e canadese) conserva la bipartizione in codice di pace e di guerra: tutti prevedono disposizioni particolari e specifiche ipotesi di reato per il tempo di guerra, ma sono disposizioni assolutamente integrate con quelle vigenti per il tempo di pace e, per lo più, formulate accanto ad esse. Oltre tutto, l’esistenza di un codice di guerra distinto da quello di pace è in Italia fonte di laceranti dibattiti ogniqualvolta si debba applicare il primo, anche solo per non lasciare intere situazioni, per esempio il rispetto del diritto internazionale umanitario, prive di tutela penale. La guerra oggi non è più un “universo giuridico” del tutto distinto e diametralmente alternativo alla pace: tra guerra e pace si è generata una “zona grigia” di situazioni conflittuali o subconflittuali intermedie, che non è agevole far rientrare né nella pace, né nella guerra e che, nel complesso, configurano le ipotesi largamente più probabili(9).

Per esempio, le operazioni per il mantenimento della pace: ed infatti, una delle proposte prese in considerazione era istituire addirittura un terzo codice, specificamente concepito per queste operazioni. Ciò peraltro avrebbe ancor più ostacolato la facile lettura dei codici, già ora resa problematica dal meccanismo della “doppia complementarietà” tra CP e CPMP e tra CPMP e CPMG, che certo ne rende ardui lo studio e la consultazione ai non giuristi, mentre il pregio di un codice penale militare dovrebbe essere la sua accessibilità ai destinatari, cioè ai militari anche inesperti di diritto. In ogni caso, la guerra, e non la pace, cioè l’ipotesi operativa più difficile ed impegnativa, deve continuare ad essere il riferimento “culturale” ed organizzativo delle Forze Armate, essendo evidente che le organizzazioni incaricate di fornire sicurezza devono plasmarsi sull’ipotesi peggiore: altrimenti non possono che fornire una sicurezza relativa e limitata. Ciò richiede che l’ipotesi “guerra” sia attentamente studiata e conosciuta da tutti, e non sia un riferimento remoto e marginalizzato in un CPMG non più studiato e non più conosciuto se non da pochi originali studiosi perditempo, come me. In sintesi, io sono un fervente sostenitore del codice unico: e ciò sicuramente a maggior ragione per Forze Armate interamente professionali.


5. Nozione di reato militare e militarizzazione di reati comuni

Un quarto argomento investe la latitudine della nozione di reato militare. Com’è noto, l’art. 37 del codice dà una nozione sostanzialmente tautologica del reato militare: è tale qualunque violazione della legge penale militare. La tentazione di spezzare questa tautologia è stata forte, ma il problema è apparso insolubile. Le implicazioni non vanno valutate solo in termini di giurisdizione, ai fini dell’applicazione dell’art. 103 della Costituzione: ma certamente, queste sono le più pesanti. Basti pensare all’evoluzione dei reati contro la Pubblica Amministrazione, ed alla ripetuta novazione dei confini traA9??† il peculato, la malversazione e l’abuso d’ufficio, od all’assenza di un reato di rapina militare: se un militare in caserma ruba il portafoglio a un altro militare, risponde di furto militare, e procede l’A.G. militare; ma se fa ciò con violenza, il reato diventa comune e procede l’A.G. ordinaria.

Com’è noto, a ciò rimediava nella concezione originaria dei codici militari l’art. 264, che prevedeva un consistente ampliamento della giurisdizione militare, fino a ricomprendervi tutti i reati comuni commessi dai militari in danno del servizio o dell’amministrazione militare, o di altri militari purché in luogo militare, o durante un servizio od a causa di esso. Tale norma fu abrogata e sostituita il 23 marzo 1956(10), perché chiaramente in contrasto con l’art. 103 Cost.: ma vale la pena di sottolineare che era una norma di giurisdizione. Se fosse stata una norma sostanziale, sarebbe probabilmente sopravvissuta. Il problema, pertanto, può essere risolto con una sostanziale “militarizzazione”, certo non arbitraria e illimitata, di reati comuni commessi dai militari, che siano in concreto offensivi degli interessi giuridici protetti dai codici penali militari: scelta peraltro condivisa anche da molti codici penali militari esteri; ma ciò pone il problema di stabilire se sia sufficiente una norma di militarizzazione sola e generale, o se invece questa “militarizzazione” vada definita con specifiche norme, sicuramente più selettive, secondo la tipologia dei reati e degli interessi protetti.


6. Reati contro la disciplina militare.

Concetto di disciplina Una quinta, breve riflessione investe i reati contro la disciplina, che costituiscono la parte forse più qualificante di un codice militare. Essa non può prescindere dal fatto che l’art. 2 del RDM vigente contiene una definizione di disciplina militare piuttosto sommaria, soprattutto se paragonata con l’art. 5 del RDM del 1964, che a sua volta riproponeva, emendati, gli stessi concetti del RDM per l’Esercito del 1929, perfettamente coerenti con il Titolo III del CPM. Ciò è un evidente sviluppo applicativo della L. 382/78, che si preoccupa più che altro di definire la disciplina in modo negativo, dicendo cioè ciò che essa non deve essere, piuttosto che in positivo: di fatto, ciò è stato all’origine di molta giurisprudenza “distruttiva” della A9??† Corte Costituzionale, a partire dalla sentenza n. 103 del 1982. È immediato il confronto con il regolamento di disciplina militare francese del 1975, che esplicitamente definisce la disciplina militare anche in termini di esigenze del combattimento.

Ciò per sottolineare la necessità che, nel momento in cui le Forze Armate si volgono al professionismo, venga ricostruito un chiaro e completo concetto di disciplina tutelabile penalmente, e soprattutto al riparo da quelli che possono essere, nel nostro Paese, i pericoli impliciti nel professionismo, non ultimo quello della sindacalizzazione, peraltro esclusa non solo dalla legge italiana, ma anche dalle leggi francese, inglese, americana e spagnola. In ciò, si trova una singolare conferma della necessità di ripristinare l’unitarietà della legislazione penale e disciplinare; è vero che non pochi tra i reati contro la disciplina attualmente previsti potrebbero essere depenalizzati, in ossequio al principio del “diritto penale leggero”: ma ciò potrebbe esser fatto solo rivedendo o integrando il RDM, e specie l’allegato “C”, per il principio di tassatività introdotto anche in campo disciplinare, altrimenti varie ipotesi depenalizzate rischierebbero di restare anche senza una adeguata sanzione disciplinare.

Infine, la costruzione delle singole norme a tutela della disciplina militare dovrebbe essere attentamente ricalibrata secondo la nuova realtà dei reparti di un esercito moderno; per esempio: ha ancora senso prevedere per i reati di ammutinamento e rivolta lo stesso numero di militari previsto 60 anni fa (quattro), anche quando essa potrebbe ingenerarsi in una piccola pattuglia, o in un piccolo equipaggio di nave o aeromobile, o quando il numero dei militari coinvolti tende ad assumere assai minor rilievo, a fronte per esempio della loro qualità, o della loro specializzazione?


7. Reati contro le leggi e gli usi di guerra

Un’ultima riflessione più accurata, peraltro impossibile in uno scorcio di relazione, richiede l’adeguamento del Titolo IV del CPMG, alla luce delle Convenzioni e dei Protocolli successiviA9??† e, per ultimo, dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale. In verità, il Titolo IV del nostro Codice di Guerra regge ancora benissimo il confronto coi codici degli altri Paesi, e può considerarsi ancora all’avanguardia, un autentico faro a testimonianza della civiltà giuridica e militare del nostro Paese. Tuttavia, l’adeguamento è indispensabile, per evitare che nelle maglie delle diverse formulazioni sfuggano ipotesi di reato, e che pertanto i nostri militari possano essere esposti alla giurisdizione suppletiva della Corte, ove il nostro Paese sia ritenuto unwilling o unable, ai sensi dell’art. 17 dello Statuto(11).

In questa necessaria opera di adeguamento il problema più delicato è da un lato riprodurre fedelmente, sia pure con la tecnica legislativa italiana, tutte le fattispecie elencate nell’articolo 8 dello Statuto, ma nello stesso tempo salvaguardare anche tutte le altre ipotesi previste dal Titolo IV, ma estranee al concetto di “crimine di guerra” (mi riferisco in particolare ai reati dei prigionieri di guerra italiani in mano nemica), ed infine assicurare la più chiara e netta distinzione tra i reati commessi nel contesto di conflitti interni e quelli commessi nel contesto di conflitti internazionali, che appartengono ad universi giuridici del tutto diversi.


8. Conclusioni

Con ciò, la panoramica non è certo completa. Molto vi sarebbe da dire sulla necessità di ricostruire una procedura penale militare di guerra che, soprattutto per la fase delle indagini preliminari, sia concretamente applicabile, in teatri di operazione assai lontani, potenzialmente assai degradati, ovvero sulla necessità di istituire strumenti deflattivi non della sola azione penale, ma anche delle stesse indagini, tenendo presente che il nostro è il solo Paese, tra quelli impiegati in operazioni, in cui un militare, per aver sparato e colpito un avversario durante un’azione sostanzialmente simile ad un combattimento, debba per legge essere destinatario di un avviso di garanzia e debba quindi, malgrado tutto il buon senso di cui la nostra A.G. militare dà quotidiana prova, persino procurarsi un avvocato al suo rientro in Patria.

Ancora più interessante sarebbe esplorare la complessa problematica del rapporto tra procedimento disciplinare e procedimento penale, posto che, ancorché la sospensione del procedimento disciplinare non sia più prevista in pendenza di quello penale, di fatto essa continua ad essere generalmente applicata, spesso con gravi danni per la stessa Amministrazione. Evidentemente, l’intervento legislativo già attuato con l’art. 211 Att., deve esser reso più esplicito, per esempio attraverso una disposizione analoga a quella contenuta nel “Règlement de discipline générale dans les armées” francese (art. 30), in base alla quale: - l’azione disciplinare è assolutamente indipendente da quella penale; - un medesimo fatto può formare oggetto cumulativamente di una sanzione disciplinare di corpo, di una sanzione di stato e di una sanzione penale; - una condanna penale non comporta necessariamente una sanzione disciplinare, così come un’assoluzione o un’archiviazione non precludono l’azione disciplinare, con la sola avvertenza che la materialità dei fatti stabilita dal giudice penale non può essere contestata e che la punizione non può essere motivata con fatti presentati sotto la loro qualificazione penale. Lo scrittore francese René Quinton scriveva che, per errori nell’avanzamento dei loro ufficiali, i soldati in guerra pagano con la vita.

Analogamente potrebbe esser detto per gli errori nella legislazione militare, ed in particolare di quella penale. È vero che nella legislazione penale militare è singolarmente difficile conciliare le esigenze del diritto, inteso nella sua accezione più alta e più nobile, con le esigenze dello strumento militare, che sono essenzialmente pratiche. Per questo è importante rammentare che l’ordine della compagine militare, prima di essere norma, deve essere ethos e praxis, come Condorelli ci insegna. Il contrasto tra esigenze del diritto e della natura umana e le esigenze dell’organizzazione sociale non è un fatto esclusivamente militare: Bertrand Russell attribuisce A9??† questo generale contrasto, tipico di tutte le articolazioni sociali, ad un dissidio insanabile generato dalla tecnica moderna(12). Ma questo dissidio, che in fondo è la dialettica tra il diritto e le esigenze della guerra, è anche la fonte e la ragion d’essere di tutto il diritto militare. Croce ci ripeterebbe che, come tutte le dialettiche tra tesi e antitesi, questo non è tanto un problema, quanto una forza positiva, da valorizzare, una vera e propria scaturigine.

Ecco perché io auspico un diritto penale militare che sia nello stesso tempo rispettoso delle esigenze del diritto e di quelle dello strumento militare, incluse quelle della guerra, che per un esercito, così come per un intero popolo, è un momento supremo di verità, ancorché si spera non debba presentarsi mai. Una norma penale che fosse una semplice sanzione giuridica delle esigenze militari potrebbe portarci assai vicini al baratro della barbarie: ma una norma che fosse esclusiva traduzione delle esigenze del diritto, e non tenesse conto delle specifiche esigenze delle operazioni militari, non solo rischierebbe di far perdere le guerre, ma finirebbe sostanzialmente con l’essere inapplicata. Oltre un secolo fa, il sociologo e giurista tedesco Lorenz von Stein, nella sua monumentale opera sulla scienza dell’amministrazione, scrisse che “il considerare il diritto degli eserciti come parte integrante della vita giuridica della nazione è segno del più alto grado di civiltà”: ed è questo il segno che deve muovere il giurista militare in ogni seria analisi, de jure condito o de jure condendo, del diritto penale militare del proprio Paese.


(*) - Generale di Brigata dei Carabinieri, Direttore coadiutore dell’Istituto Alti Studi della Difesa.
(1) - Cfr.: O. CONDORELLI, Scritti sul diritto e sullo Stato, Giuffrè, Milano, 1970.
(2) - vds.: N. LUHMANN, Come è possibile l’ordine sociale?, Laterza, Bari, 1985.
(3) - Cfr.: Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 45261 del 18-12-2001 (ud. del 24-09-2001), Nicita (rv 220935): “In materia di abuso di ufficio, la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che risulti lesiva del buon funzionamento e della imparzialità dell’azione amministrativa rileva alla duplice condizione che contrasti con norme specificamente mirate ad inibire o prescrivere la condotta stessa (non potendosi annettere rilevanza, a tale proposito, a disposizioni genericamente strumentali alla regolarità del servizio), e che dette norme presentino i caratteri formali ed il regime giuridico della legge o del regolamento” (nel caso di specie la Corte ha rilevato come il “Codice di comportamento dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni”, formalizzato con D.P.C.M. 28 novembre 2000, n. 454 non sia stato emanato nelle forme previste per i regolamenti governativi dall’art. 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400).
(4) - Cfr.: V. BACHELET, Disciplina militare ed ordinamento giuridico statale, Giuffrè, Milano, 1962.
(5) - P.es., allo stato giuridico dei militari i TAR hanno vieppiù frequentemente applicato norme tratte dallo stato giuridico degli impiegati civili dello stato, al procedimento disciplinare sono state applicate le stesse norme previste dal D.P.R. del 1957, il diritto penale militare è stato vieppiù assorbito in quello penale comune, la procedura penale militare è stata addirittura soppressa ed interamente sostituita dal nuovo codice di rito del 1989.
(6) - Cfr.: A.C. JEMOLO, Costume e diritto, Neri Pozza Ed., Venezia, 1968.
(7) - Per fare un esempio, basti pensare alla vicenda dei reati contro la disciplina (insubordinazioni ed abusi di autorità): non esistono CPM esteri in cui essi siano puniti alla stessa stregua, come in Italia; ma non necessariamente gli eserciti USA, inglese o francese debbono essere per ciò considerati meno civili del nostro. In realtà, ciò corrisponde ad un concetto di disciplina che potrebbe essere anche giusto e adatto per un esercito destinato a non combattere, ma che in operazioni conflittuali potrebbe essere invece pericolosamente fragile.
(8) - Limitatamente all’Army Act per l’Esercito (il Regno Unito conserva tre legislazioni formalmente diverse per le tre FF.AA., peraltro di fratto identiche).
(9) - Con ciò non si intende affatto cancellare la guerra vera e propria dall’orizzonte delle cose possibili (la guerra è più o meno un fenomeno naturale, e non si sopprime con editto reale) talché rimane comunque la necessità di prevedere norme, certamente compatibili col nostro ordinamento costituzionale, per la guerra vera e propria, così come per le situazioni di emergenza talmente gravi da poter essere equiparate ad essa. In proposito, è un concreto problema il fatto che la nostra Costituzione, a differenza di quella francese (vds. artt. 16 e 36) non preveda esplicitamente gli stati di emergenza diversi dalla guerra.
(10) - Art. 8 L. 23 marzo 1956 n. 167, nell’imminenza dell’entrata in funzione della Corte Costituzionale.
(11) - Ciò pur tenendo conto del fatto che la giurisprudenza della Corte è limitata a crimini di guerra di particolare gravità, che oltre che improbabili da parte dei nostri militari, trovano comunque già severa sanzione nel nostro ordinamento. Più consistente il problema ove il nostro Paese dovesse esercitare la giurisdizione per crimini di guerra commessi in danno dell’Italia, ovvero in applicazione del generale principio del dedere aut judicare.
(12) - Cfr.: B.RUSSELL, Autorità e individuo, ed. it. Longanesi, Milano, 1970, pp.6 e 64.