Riteniamo, inoltre, che occorra oggi focalizzare la nostra attenzione sulle possibili “terapie” da applicare nelle varie aree interessate, sia nel nostro che in altri Paesi, per poter limitare ed invertire il processo di desertificazione, tenendo conto delle varie tecnologie sviluppate nell’ultimo secolo ed attuate in molti Paesi, sia avanzati (USA, Australia, Israele ecc.) che in via di sviluppo (Cina, India, Medio Oriente, Africa subsahariana, Sud e Centro America ecc.), passando dalla speculazione accademica all’azione riparatrice.
Gli Stati Uniti sono stati, in tempi recenti, il primo Paese che ha affrontato in modo scientifico, razionale, sistematico e con larghezza di mezzi, tale problema.
Fino alla scoperta del nuovo mondo, tutto il Nord America era abitato da tribù nomadi di cacciatori-raccoglitori (i pellerossa) che avevano come fonte principale di sostentamento l’unico grosso erbivoro indigeno, il bisonte, Le zone semiaride degli attuali Stati Uniti erano rappresentate da steppe traversate da mandrie di bisonti in continuo spostamento migratorio, dal sud al nord nel periodo primaverile-estivo e viceversa nel periodo autunnale-invernale. Esisteva un equilibrio naturale tra vegetazione pabulare (e non), bisonte, uomo ed altri predatori locali.
Il cavallo fu introdotto dopo la scoperta dell’America, insieme agli asini, ai ruminanti ed agli altri erbivori originari del vecchio mondo. Successivamente, con la colonizzazione, da parte prevalentemente di emigranti europei, furono anche introdotte le colture del vecchio mondo (sia alimentari per l’uomo che foraggiere per gli animali domestici) insieme con le tecnologie di coltivazione sviluppate in Europa (principalmente l’aratura, per le colture stagionali e poliennali). Dopo di aver dissodato le aree più favorevoli, lo sfruttamento agricolo si spostò anche nelle aree in piano ed in collina delle steppe semiaride del centro-sud del Paese. In tali aree si diffusero i cereali in rotazione al maggese. Le arature e la stagionalità della copertura della vegetazione favorirono fenomeni di erosione eolica ed idrica, con la perdita dello strato superficiale e l’inaridimento di ampie aree dapprima coperte dalla vegetazione.
Il fenomeno ebbe il suo apice dal 1915 al 1925 nei “Great Plains” semiaridi, per la notevole richiesta mondiale di cereali e per una serie fortuita di annate con relativamente elevata piovosità. Sfortunatamente a tale decade subumida seguì, negli anni ’30, una serie di annate con bassa piovosità (la cosiddetta “Dust Bowl Era”, che potremmo tradurre come “l’era delle grandi nubi di polvere”): il tutto ingigantito da periodi di maggese che potevano durare 15 e più mesi, in cui venivano anche effettuate numerose successive arature anche per combattere le piante infestanti.
Una erosione eolica imponente, seguita da erosione idrica, fu tale da sterilizzare oltre 2 milioni e mezzo di ettari. Ci si convinse, quindi, che tali aree non potevano sopportare pratiche di coltivazione sviluppate per aree più favorevoli, ma preferenzialmente potevano essere usate come pascolo, anche se con molto giudizio. Solo aree che potevano godere di irrigazione potevano essere normalmente coltivate. Il fenomeno si ripeté negli anni ’40 e ’50, a causa delle necessità belliche e postbelliche, ma in misura minore.
In tali periodi, per ovviare ai gravi inconvenienti accaduti, furono introdotte a sviluppate le tecnologie di aratura a “girapoggio” (già ben note in Italia) e non più a “rittochino”, con ampie fasce intermedie coperte da vegetazione erbacea od arbustiva permanente (nel caso si volessero ottenere anche raccolti di cereali ecc.).
Furono anche sviluppate specie foraggiere annuali e perenni, sia indigene che introdotte da altri Continenti, capaci di controllare l’erosione e di fornire foraggio per l’allevamento estensivo, opportunamente turnato, particolarmente bovino ed ovino.
Oggi, la “Conservation Agriculture”, come è stata battezzata negli USA, si basa su tre principi fondamentali: 1) eliminare o ridurre ogni lavorazione meccanica (no o minimum tillage); 2) mantenere il più possibile una copertura verde permanente del suolo con specie perenni o perennanti;includendo quindi anche la riforestazione 3) in caso di coltivazione, usare rotazioni delle colture, mantenendo i residui delle colture stesse (paglie ecc.) in copertura, a protezione del terreno.
Risulta evidente che tali pratiche sono valide se la pressione della popolazione e degli allevamenti risultano piuttosto modeste e le superfici disponibili per persona sono molto ampie, come generalmente si verificano in tali aree degli USA.
Anche in Australia si sono verificate situazioni riportabili a quelle Nordamericane. Anche in Australia non esistevano mammiferi prima della colonizzazione europea. Con la introduzione di bovini, ovini, caprini, equini, conigli ecc. e delle coltivazioni con specie del vecchio e nuovo mondo, unite alle pratiche agronomiche europee, nelle amplissime zone semiaride del Continente australe si verificarono fenomeni di erosione imponenti e vistosi.
Tuttavia, le ricerche attuate in Australia hanno portato alla valorizzazione di un particolare attrezzo meccanico: il “chisel plough”.
Si tratta di sostituire l’aratro voltaorecchio con uno (o più) grossi spuntoni che, trainati da un trattore, si infilano nel suolo fino alla profondità di 50-80 e più cm, sommuovendo il suolo stesso, ma lasciandolo con la stessa stratigrafia (quindi non rovesciando la zolla), permettendo una più agevole penetrazione delle acque piovane ed aumentando la capacità idrica del suolo stesso. Nelle zone aride tale lavorazione può essere effettuata lasciando una fascia non lavorata tra quelle lavorate, a distanza crescente al diminuire delle precipitazioni attese. L’acqua che scorre sul suolo non lavorato penetra facilmente nei solchi lavorati, che, in tal modo godono di una quantità maggiore di acqua piovana (il cosiddetto “rainwater harvesting”). Il sistema è particolarmente idoneo alla rigenerazione dei pascoli e della riforestazione nelle aree non pietrose ed eventualmente può essere usato anche per qualche coltura stagionale.
Al chisel si può aggiungere un apparato meccanico di semina per completare le lavorazioni. Uno strumento di tal genere è stato realizzato dal Dr. C. Giordani dell’Istituto Agronomico d’Oltremare di Firenze del MAE. Tale attrezzatura potrebbe essere utilizzata con profitto anche in Italia, nelle aree semi aride del nostro Mezzogiorno.
Il principio del “rainwater harvesting” cioè della raccolta dell’acqua piovana si è infatti affermato come tecnologia alternativa alla copertura verde permanente del suolo, specialmente nelle aree caratterizzate da una forte presenza umana e di bestiame domestico, come ad es. nel Sahel, in Medio oriente, in Nord Africa, ecc.
La raccolta e l’uso dell’acqua di pioggia vede due alternative fondamentali: la prima consiste nell’incanalare le acque ruscellanti verso un deposito o vasca anche lontani dal bacino di raccolta, con l’acqua che può essere usata per dissetare uomini ed animali, ovvero per l’irrigazione di piccole aree. La seconda consiste nello scavo di piccole buche o delimitazione con arginelli di bacini, sia a mano che meccanicamente, che servono per intrappolare l’acqua di pioggia stessa e facilitarne la penetrazione nel suolo.
La prima tecnologia è stata largamente utilizzata dai Nabatei, in Siria, Palestina, Arabia ecc., già oltre 3000 anni fa ed ha loro permesso di sviluppare una civiltà durata centinaia di anni. La stessa tecnologia è stata ripresa dagli agronomi israeliani con applicazioni in varie zone desertiche di Israele (Negev ecc.), anche abbinata con l’ irrigazione a goccia ed anche dagli australiani come punti di abbeverata per le greggi al pascolo nelle aree semiaride.
Tali tecnologie sono state sviluppate indipendentemente anche da popolazioni precolombiane in Sudamerica, in India, in Cina, in Indonesia, in Laos ecc. anche in aree umide, specialmente per la coltivazione di cereali nelle aree monsoniche.
La seconda alternativa di rainwater harvesting consiste nel costruire, a mano od a macchina, con varie attrezzature studiate appositamente, delle serie di fosse o microbacini ove l’acqua piovana viene intrappolata e quindi obbligata a penetrare nel terreno. L’acqua caduta, ma che non riesce a penetrare nel suolo (quasi sempre incrostato e compatto) scorre in superficie, ma viene catturata dalle buche o bacinetti posti perpendicolarmente alla pendenza del terreno. La distanza tra le file di buche o bacini è in funzione della piovosità media attesa: più scarse sono le piogge, più distanti saranno le file di buche effettuate a mano od a macchina. Con tale tecnologia si riesce a raddoppiare o triplicare l’acqua assorbita nelle aree lavorate, permettendo un maggiore e più lungo sviluppo della vegetazione, anche se limitato alle fasce coinvolte. La meccanizzazione di tali operazioni rende molto più rapido, efficace ed agevole il risultato.
In Italia sono stati sviluppati due aratri speciali dal Dr. Vallerani, già Consulente FAO, e dalla ditta umbra di macchine agricole Nardi (chiamati Delfino e Treno) che forniscono ottimi risultati, ovviamente nei terreni e condizioni di pendenza adatti.
Tali aratri scavano microbacini con rapidità ed efficacia, che possono essere quindi seminati con specie alimentari, foraggiere od usati per trapiantare alberi da frutto o da riforestazione. Programmi di utilizzazione di tali attrezzature sono stati realizzati in vari paesi dell’Africa subsahariana e sono stati usati anche in Cina, Medio Oriente ecc.
La Organizzazione: Agronomi e Forestali senza Frontiere(AGRFOR) ha utilizzato, mediante il progetto “Acacia” gestito dalla FAO e finanziato dalla Cooperazione Italiana, tali tecnologie in sei Paesi dell’area Sudano-Saheliana, con notevole successo.
Va da sé che tutte queste tecnologie debbono essere scelte ed usate in funzione delle caratteristiche dei suoli, delle pendenze, delle colture e con grande duttilità e comprensione per le esigenze, usi e costumi degli abitanti del luogo.