Non tutti sanno che...

GARIBALDI (Gli arresti di)

Non è un mistero che più di una volta l'azione del generale Giuseppe Garibaldi dovette essere accortamente "contenuta" dal governo centrale, se non addirittura «arrestata». E in verità si trattò di veri arresti, proprio nella persona dell'eroe dei due mondi.

Il primo arresto, quello dei 1849, fu un compito delicato e difficile per lo stato d'animo del paese, ancora esasperato dai sofferti insuccessi militari e politici.

Il capitano dei Carabinieri incaricato della missione seppe condurla a termine con molta prudenza e con grande moderazione.
Al Generale stesso non spiacque il franco, soldatesco contegno assunto nei suoi riguardi e, volenteroso e conciliante, usò della sua influenza per evitare che quella che era ineluttabile necessità del momento potesse diventar motivo di nuovi lutti e di nuovi dolori per la sua Patria.

1. L'arresto di Chiavari
A Chiavari il Generale era giunto la notte del 5 settembre 1849, dopo essere sbarcato nelle prime ore di quel giorno a Portovenere. Sebbene fosse già notte, la notizia dell'arrivo si diffuse rapidamente in città e destò emozione ed entusiasmo.
L'appresero subito anche le autorità e poche ore dopo un carabiniere a cavallo partiva alla volta di Genova per recapitare i dispacci che l'intendente conte Nomis di Cossilla e il capitano dei Carabinieri Filippo Ollandini spedivano ai rispettivi superiori.
Gli ordini non tardarono a giungere, poiché l'ipotesi già era stata esaminata e i provvedimenti da adottare decisi. Il La Marmora, che dopo avere represso con molta energia la rivolta dell'aprile precedente era rimasto in Genova quale regio commissario straordinario, non appena seppe della presenza di Garibaldi in Chiavari, ne dispose il fermo. Si uniformava così alle direttive ricevute, che gli facevano obbligo di trattenere momentaneamente in arresto i reduci della difesa di Roma.

Per la delicata missione fu prescelto il capitano dei Carabinieri Carlo Alberto Basso, che ricevette istruzioni scritte di ricercare in Chiavari il «famigerato Garibaldi» e di «assicurarsi della sua persona con quei migliori modi che sarà possibile».
In quel momento però Garibaldi non aveva altra intenzione che quella di raggiungere a Nizza i figli e la vecchia madre; e questo disse francamente all'intendente, che la sera del 5 si era recato da lui per sapere da dove venisse e in quali condizioni si trovasse.
Non appena il capitano Basso ebbe a comunicargli le intenzioni governative, Garibaldi, superata la prima impressione di disappunto, vi si adattò; e quando, a notte fatta, la vettura, in cui aveva preso posto con l'ufficiale, partì da Chiavari e dalla folla si levarono acclamazioni per lui e grida ingiuriose contro il Re, il Ministero e i Carabinieri, fu il Generale stesso ad invitare i presenti all'ordine e alla calma.

Se la missione affidata al Basso poté essere condotta a termine con pieno successo e senza incidenti, non così facili furono in seguito per il Governo le conseguenze che quella misura aveva promosso.
Su mozione del Tecchio, la Camera dichiarò quell'arresto e la minacciata espulsione di Garibaldi dal regno atti lesivi "dei diritti consacrati dallo Statuto e dei sentimenti di nazionalità e di gloria italiani", ma il Governo non mutò atteggiamento, e il 16 settembre, convinto dal La Marmora, Garibaldi salpava a bordo del Tripoli per il suo secondo esilio, senza che avvenissero disordini.
I Carabinieri potevano dirsi soddisfatti di aver assolto ancora una volta il loro dovere, conciliando la moderazione e il tatto con le necessità politiche di quei difficili momenti.

2. Il secondo arresto
Dopo l'annessione dei territori ex borbonici e la proclamazione del Regno d'Italia mancavano ancora, per completare il processo di unificazione della penisola, il Veneto e Roma, l'uno saldamente tenuto dall'Austria, l'altra sorvegliata dalle baionette francesi, sotto il potere temporale di Pio IX.
Nell'agosto del 1862 Garibaldi aveva tentato di risolvere la delicata vertenza con un'azione simile a quella intrapresa in Sicilia nel 1860, ma stavolta gli mancò l'appoggio del governo, che, anzi, sotto la minaccia francese, dovette intervenire fermando l'eroe ed i suoi 2000 volontari sull'Aspromonte.

Il 15 settembre 1864 il governo Minghetti stipulò una convenzione ("convenzione di settembre") in virtù della quale l'Italia si assumeva la difesa dello Stato pontificio, al posto della Francia che ritirava le sue truppe. Nondimeno di lì a tre anni, Garibaldi si risolse a ritentare l'impresa fallita nel '62.
Il mattino del 22 settembre 1867 egli lasciò Sinalunga, da dove in poche ore avrebbe potuto raggiungere lo Stato pontificio, mettendo il Governo nella necessità di un pronto intervento. Fin dal mattino del 23 il prefetto di Perugia aveva predisposto quanto era necessario per impedire al Generale ogni possibilità di sconfinamento, da qualsiasi parte gli avesse cercato di raggiungere i territori del Papa, e nelle tarde ore di quello stesso giorno ne ordinava l'arresto.

Il delicato incarico fu affidato al tenente dei Carabinieri Pizzuti, comandante della Luogotenenza di Orvieto, che ebbe a sua disposizione una Compagnia di Fanteria e un treno speciale.

Ecco i particolari dell'arresto nella relazione spedita dal tenente Pizzuti, il 25 settembre, da Alessandria:

"Il 24 corrente verso le 2 antim. ricevetti, per mezzo della sotto prefettura d'Orvieto, l'ordine ministeriale di arrestare in Sinalunga Garibaldi ed i suoi. Col treno speciale messo a mia disposizione partii da Carnaiola alle 3,20 giungendo colà alle ore 4,30. Ivi arrivato presi le opportune precauzioni facendo caricare anche le armi ai centodieci uomini che avevo meco, cioè cinque carabinieri e centocinque di fanteria e mi introdussi in paese ove seppi che Garibaldi doveva partire verso Perugia alle ore 6. Mi affrettai quindi a mettere provvisoriamente in custodia quanti incontrai per impedire che si spargesse la voce dell'arrivo del treno e di truppa, ciò che avrebbe al certo compromesso l'operazione, bloccai quindi la casa del Generale e mi introdussi con due carabinieri sopra. Il padrone non voleva annunciarmi, io feci custodire lui e la servitù e feci informare della mia venuta il generale Garibaldi da un domestico. Fui introdotto nella sua stanza, lo trovai in letto, e gli partecipai l'ordine di accompagnarlo altrove, al che egli rispose essere a mia disposizione, mi chiese solo due o tre ore di tempo, io risposi non poter tanto accordare, mentre il paese era già in allarme, e che se tutto fosse avvisato ne sarebbero nati disturbi con la truppa, ciò che egli non potrebbe permettere. Garibaldi trovò giuste tali mie osservazioni e si mise a mia disposizione.

Requisita una vettura lo scortai alla ferrovia in mezzo agli evviva e grida di simpatia della popolazione pel Generale, mal frenata dalla presenza della truppa. Partii quindi per Firenze, ove ricevetti l'ordine di dirigermi ad Alessandria: eseguii, giungendovi alle ore 10,30. Nel viaggio non vi fu novità di sorta, eccetto i soliti gridi, che usando prudenza non ebbero altro seguito.
In Voghera Garibaldi disse essere alquanto indisposto e volersi fermare due ore, ebbi l'autorizzazione da S.E. il Ministro dell'Interno, ma mentre mi giungeva il dispaccio, il Generale esternava voler rimanere ivi l'intera notte. Io seppi che vi si trovava tal Pallavicini, suo braccio destro, e che la popolazione avrebbe potuto ammutinarsi e compromettere l'operazione, quindi, ad evitar l'impiego della forza, pregai il Generale di proseguire per Alessandria, dopo breve riposo, ove eravamo vicini; egli aderì.

Non mancai di comunicare gli ordini precisi che avevo dal ministero di usare tutti i riguardi e che il medesimo metteva a sua disposizione tutto che potesse desiderare.
Mentre da Sinalunga mi recavo allo scalo ferroviario, il maggiore Basso, garibaldino, e l'ingegnere Bartolini di Parma, chiesero di seguire il Genero che me ne pregò anche.
Non opponendosi le mie consegne, aderii ed ora tutti si trovano nella cittadella di Alessandria.

In Sinalunga non rinvenni altri ufficiali garibaldini.
Io cercai di conciliare tutta la possibile politezza col mio dovere, come mi era imposto. A Sinalunga fui costretto ad agire energicamente e fermare provvisoriamente quanti incontrai appunto per impedire che la popolazione fosse avvisata e che sarebbesi al certo ammutinata come dimostrava, ciò che poi mi avrebbe costretto usare la forza, la qualcosa il ministero non voleva che in ultimo e non presumibile caso.
Il Generale non ebbe a lagnarsi, anzi spesso ringraziava delle profferte che gli erano fatte da me e dal capitano di fanteria a mia disposizione
".